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Da Khaled alle donne di Tahrir: il sadismo della divisa

Le immagini crude della spietatezza purtroppo esprimono l’orrore più d’ogni parola. Quest’ultime possono – come nel celebre reportage di Jean Genet a Shatila, testimonianza postuma della strage falangista protetta da Tsahal – descrivere meticolosamente la ferocia. L’immagine fa di più. Può convincere anche chi si ostina a non voler sapere. Decidere se mostrarle per informare e fare luce è sempre un terreno minato perché introduce quello choc che può scivolare nel morboso sensazionalismo. Evitare di farlo per timore di cadere in questa trappola è sicuramente peggio. Si finisce per diventare complici dei criminali. Così il corpo umiliato, violato, spogliato del chador della donna egiziana trascinata sul terreno di Tahrir, una piazza in cui polvere e sangue si mescolano da mesi, resta impresso nella mente grazie alle riprese professionali o amatoriali che la tecnologia del web ha diffuso in un battibaleno. In questo, come in casi sempre più frequenti, l’orizzontalità dell’informazione aggira il desiderio di oblio. Chi descrive ha sempre maggiori difficoltà rispetto a chi mostra sebbene la strada sia comune e sempre in salita nella quotidiana battaglia d’una comunicazione non filtrata. Grazie a quei fotogrammi, che sbugiardano le impudiche dichiarazioni degli uomini dello Scaf secondo cui le violenze contro i manifestanti cairoti erano “invenzioni dei media”, molte più donne egiziane hanno urlato ieri la loro rabbia. Non tutte erano state in piazza, molte avevano visto nei video postati su You Tube, gli scarponi stamparsi sul povero corpo inerte. Avevano anche veduto le pistole fumanti che aggiungono altre vittime alle centinaia di sacrificati per il nuovo Egitto. E non sembrano avere paura.

A chi circa un anno fa iniziava a contestare il marciume di Mubarak era egualmente rimasta impressa la faccia di Khaled Saeed prima e dopo la “cura” dei picchiatori in divisa. La drammatica vicenda è nota, anche perché il social network Facebook registra tuttora la presenza del gruppo “Siamo tutti Khaled Saeed” che raccolse le proteste di amici e poi di migliaia d’oppositori. La ricordiamo brevemente e soprattutto rimostriamo le foto non per impressionare, ma per ribadire come in Egitto il braccio violento del potere resta tuttora immutato. I fatti somigliano alle tragiche morti nostrane di Adrovandi, Cucchi e di più recenti vittime del cinico abuso di potere e di ruoli per tutori della legge che si ritengono intoccabili. Il 6 giugno 2010 Khaled fu intercettato da due agenti in un cyber caffè di Alessandria, venne perquisito e percosso nel locale per presunto possesso di hashish. Venne trascinato fuori e letteralmente sfigurato perché la testa fu ripetutamente sbattuta su una porta di ferro e dei gradini anche quando il ragazzo era svenuto e probabilmente deceduto. Il referto medico segnalava “frattura al cranio, alla mascella, al naso”. Una foto scattata di nascosto col cellulare nella camera mortuaria dal fratello di Khaled evidenziò la brutalità della morte che divenne poi il simbolo del sadismo poliziesco. Si mosse Human Rights Watch, ne scaturì una protesta internazionale per la quale lo stesso raìs fu costretto ad arrestare i colpevoli. I due agenti sono stati recentemente condannati a una detenzione di sette anni per omicidio colposo, ma hanno scampato la ben più pesante accusa di essere responsabili di “torture che producono morte”. Mentre i loro colleghi continuano ad attuare l’efferato repertorio, alla maniera certo di altre polizie di quel mondo che si lava la coscienza autoproclamandosi “democratico”.

 

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