La strada con cui Samira Ibrahim era tornata a illuminarsi è stata una lunga striscia di dolore. Il vigore giovanile, unito ai radicati ideali, la conduce tuttora a contenere il trauma. Anche questo dello scagionamento del dottore che aveva denunciato. Uno degli uomini che hanno voluto darle degrado e umiliazione. Ne riassumiamo la storia. Coi fermenti del 25 gennaio 2011 Samira era scesa immediatamente in strada. Tempo un giorno e fu fermata ma venne rilasciata il mattino seguente. Poi giunse l’arresto traumatico del 9 marzo quando gli agenti della Sicurezza la portarono assieme ad altri giovani all’interno del Museo del Cairo che s’affaccia proprio su piazza Tahrir. Le ragazze finirono da una parte, i compagni in un’altra ala. Chissà se Thutankamon vedeva. Vedevano – e ordinavano – i graduati di Tantawi che facevano picchiare fuori e dentro quelle mura. Le ragazze furono segregate, pesantemente insultate, minacciate di stupro quindi vennero condotte nel carcere militare di Haikstep, non sapevano che fosse una prigione. Scoprirono sulla loro pelle che era anche un luogo di tortura, lì subirono getti d’acqua gelida e applicazione di elettrodi su corpo, intervallate a pestaggi.
Botte sadiche e vili sulle parti intime. Ma quello che faceva più male a Samira erano gli epiteti. Ricorda “Volevano umiliarci, trattarci da prostitute, colpire la nostra dignità, ci dicevano che eravamo la rovina della nazione. Mi sentivo distrutta nel fisico e nella psiche e il mio cuore era profondamente triste”. L’umiliazione non era finita. Nella prigione militare le ragazze furono costrette a denudarsi in alcune stanze dove porte e finestre erano spalancate, così chiunque passasse, in genere giovani soldati, poteva osservare e ridere. Dopo giunsero le perquisizioni corporali del dottor Adel. Ancora Samira “In quei momenti desideravo di morire e non ero la sola. Ci toccavano, ci toccavano tutte. C’imponevano di abbassare i pantaloni… Una donna dei Servizi mi disse di distendermi perché Sir mi avrebbe visitata. Sir vestiva con abiti in dotazione all’esercito. Ero nuda davanti a lui, c’erano anche ufficiali e soldati che guardavano, io chiedevo alla donna d’impedire a quelle persone di fare da spettatori. Uno che mi esaminava toccò il mio stomaco con uno strumento elettrico e continuava a insultarmi. Se lui era un medico, come poteva farmi stare in quella situazione? Mi arresi. Erano passati solo alcuni minuti eppure mi pareva un’eternità. Mi umiliavano per stroncarmi, volevano che non mi occupassi più di diritti. Ridotta in quelle condizioni non stai più lottando contro l’oppressione, ti senti semplicemente un essere inferiore e resti bloccata”.
Quando Samira, guardando ancora una volta negli occhi l’unica donna presente che era una poliziotta, la implorava di coprirla, sentiva rispondersi “No”. E vedeva che alcuni soldati ammiccavano e giocherellavano coi telefoni cellulari. Degrado e umiliazione. Dopo l’esame corporale le hanno chiesto di firmare fogli e pratiche ma lasciavano spazi bianchi. Lei domandava a cosa servissero quegli spazi. L’azzittivano. La chiamavano puttana. Fino ad allora non si sarebbe immaginata che i militari potessero avere un simile comportamento. “Farai la fine di Khaled Saeed” era la cosa meno offensiva che si sentiva dire. Eppure Samira non s’è impaurita perché crede che questa rivoluzione o cambierà i comportamenti o farà morire ogni speranza. Sebbene fossero cadute le accuse più gravi di stupro e tortura è voluta andare avanti. Il gesto della denuncia – con cui ha accantonato i buoni consigli di chi pur stando in strada diceva “lascia stare”, “ma chi te lo fa fare” – ha ottenuto l’abolizione dei test di verginità obbligatori per le donne. Quel gesto chiede agli egiziani di uscire dal cono d’ombra di sottomissione e omertà che hanno caratterizzato decenni di vita. Dice che ottenere giustizia è il primo passo che il popolo può fare per se stesso. Purtroppo la sentenza di oggi riporta le lacrime negli occhi di Samira sebbene non ne intacchi il coraggio.
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