La lettera di Maria Elena Delia a nome anche di Egidio e Alessandra
“I suoi migliori amici siamo noi”
Signora Nirenstein,
la prego, mi spieghi, ci spieghi.
“Fatale” e “triste” una legittima richiesta di verità? Che bizzarra scelta linguistica.
Fatale come ineluttabile, come mortale o come colma di fascino, Signora Nir…enstein? Fatale come la fine toccata a Vittorio o triste come l’assenza vergognosa di una qualsivoglia rappresentanza delle nostre istituzioni al rientro della sua salma in Italia, nella stiva di un volo di linea, sdoganato come un pacco postale, dopo aver reso onore a questo paese con la sua stessa vita dedicata alla difesa dei diritti umani e del diritto internazionale?
Triste in sè o triste perché inascoltata? Triste per lei, perché forse avrebbe preferito che sulla vita e sulla morte di Vittorio calasse un velo di silenzio e indifferenza che, mi spiace deluderla, non vedrà mai calare, finchè tutte le persone che lo hanno amato, stimato e supportato avranno vita. O triste “soprattutto perché rivolta allo stato italiano”? Vale a dire? Che se fosse stata rivolta, che so, agli dei dell’olimpo, l’avrebbe trovata più allegra? Signora Nirenstein, ci spieghi, a chi dovrebbe rivolgersi questa famiglia per avere giustizia?
Vittorio era un cittadino italiano ed è stato rapito e ucciso all’estero. Non esiste un protocollo in questi casi? Non dovrebbe il nostro stato prodigarsi con tutti i mezzi possibili per fare luce su quanto accaduto ad un figlio della sua costituzione?
Vittorio non è stato ucciso per mano di coloro che considerava i suoi migliori amici. I suoi migliori amici sono rimasti straziati da un dolore che non li abbandonerà mai più e nei confronti del quale lei dovrebbe avere più rispetto, i suoi migliori amici siamo noi, i suoi migliori amici sono tutti i palestinesi che, con un’equazione di pura propaganda, lei vorrebbe cercare di far passare per responsabili di quanto accaduto a Vittorio. Sarebbe come dire che tutta l’India è responsabile del rapimento dei due turisti italiani in Orissa, ridicolo, vero? Appunto.
Afferma che la famiglia Arrigoni ama Hamas.
Signora Nirenstein, sulla base di quali prove sente di poterlo affermare? Perché ho imparato, proprio da Vittorio, che scripta manent, che le parole hanno peso e valore e devono essere sempre specchio di verità.
Ha mai parlato con la famiglia Arrigoni, Signora Nirenstein? Conosce la posizione che Vittorio aveva e aveva esplicitato più di una volta riguardo ad Hamas? Naturlamente no, o quanto ha scritto sarebbe stato scritto in totale malafede. E non voglio né posso pensare che una rappresentante dei cittadini alla Camera dei Deputati potrebbe mai fare una cosa simile. La invito perciò a documentarsi prima di esprimere pubblicamente pareri assolutamenti privi di alcun fondamento.
Vittorio è morto a Gaza. Cosa avrebbe dovuto fare, secondo lei? Scegliere sul mappamondo un paese il cui governo fosse considerato un possibile interlocutore per lo stato italiano? Per ogni evenienza? Vittorio era a Gaza proprio perché a Gaza c’era più bisogno di lui. Proprio per raccontare al mondo tutto che Gaza non significa Hamas, che Gaza significa donne, bambini e uomini che desiderano solo la loro libertà di esistere, di lavorare, di muoversi, di esprimersi. Come lei, come me.
“Trovare almeno un baleno di luce in un racconto mal concluso.” Esatto, Signora Nirenstein. E’ esattamente quello che faremo, continueremo a chiedere giustizia e verità e la chiederemo agli unici interlocutori che abbiamo, il nostro governo e quello che attualmente sta gestendo il processo. Non ne abbiamo altri. Questo sì che è fatale e triste.
Maria Elena Delia”
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Qui di seguito il vergognoso articolo della Nirestein su “Il Giornale” del 17 marzo
Gli Arrigoni amano Hamas, non la sua giustizia
di Fiamma Nirenstein
C’è qualcosa di fatale e triste, come chiedere che un racconto mal concluso trovi almeno un baleno di luce, nella richiesta di verità rivolta soprattutto allo Stato italiano che proviene dalla famiglia, dagli avvocati, dagli amici di Vittorio Arrigoni, il giovane attivista filopalestinese ucciso per mano di coloro che considerava i suoi migliori amici nella striscia di Gaza. Là, prodigandosi per i palestinesi e spargendo dal suo blog parole di fuoco contro Israele, faceva il volontario. Purtroppo fu rapito e ucciso un anno fa da un gruppo definito «salafita», ormai una specie di patente di assoluzione per tutti i loro amici appena di un grado al di sotto nella scala dei tagliagole, come Hamas e la Fratellanza Musulmana, appunto. Il dramma dell’uccisione di Arrigoni adesso continua nel rifiuto del tribunale di Gaza di celebrare il processo, nel continuo rinvio delle sedute, nella strana latitanza di alcuni accusati su un territorio minuscolo come la Striscia, e nella pesante ironia dei barbuti killer che sghignazzano in aula. C’è di che stupirsi? Certo che no in una situazione come quella di un territorio governato da un gruppo terrorista. Ed ecco che la delusione della famiglia e dei sodali di Arrigoni diventa, a sorpresa, quella che ti è stata iniettata nel sangue dall’educazione democratica e borghese. Quella della certezza del diritto. Perch´, allora, chiede la famiglia, il governo italiano non interviene? Perch´ gli interrogatori sono ridicoli? Perch´ non si conosce la lista dei testimoni? Perch´ non si ammette che gli italiani si costituiscano parte civile? E qui, si suggerisce, non dipenderà dal fatto che l’Italia non riconosce Hamas come potere legale? Perch´ non si fa un processo in absentia ora che si pensa che uno dei principali accusati sia in Egitto? Si capisce bene che la signora Egidia Beretta e il suo avvocato abbiano scritto a Napolitano, ai ministri degli Esteri, della Giustizia, e chiedano conto della loro «indifferenza». Ma è qui che le due parti della questione, la richiesta di legalità e l’indifferenza verso il fatto che Hamas sia un gruppo terrorista e illegale, stridono nel toccarsi, non si incontrano. Gli alleati naturali non dovrebbero essere i rappresentanti del governo, ma, per esempio i talkshow filopalestinesi senza se e senza ma; quelli che dovrebbero avere fiducia in un processo di Hamas potrebbero essere per esempio coloro che mostrano propensione per quell’organizzazione, l’arcipelago filopalestinese che ama la Flottilla, che dice che Israele non ha diritto a difendersi… in Italia ce ne sono tanti, per esempio, che so, Michele Santoro, o altri giornalisti da talk show. Vorremmo certo vedere un processo fair. Ma chi pensa di poter interagire, parlare con Hamas vive in una bolla ideologica che è la stessa che ha condannato a morte Arrigoni. L’Italia infatti l’ha messa nella sua lista di organizzazioni terroristiche, insieme all’Europa e agli Usa. Chi mai può aspettarsi un processo giusto da Hamas? Con tutto il rispetto per il suo lutto, sembra il caso che la famiglia di Arrigoni si renda conto che Arrigoni è stato ucciso per fanatismo islamista, come Daniel Pearl a Karachi, come Nick Berg in Iraq, come Fabrizio Quattrocchi, perch´ per gli integralisti islamici era «nemico di Dio e di Allah» e diffondeva a Gaza «il malcostume occidentale» e perch´ «l’Italia combatte i Paesi Musulmani». Hamas sa cosa fare ai nemici, nel periodo intorno al 2007 quando prese il potere a Gaza (luglio), furono uccisi 353 palestinesi. Svariati uomini di Fatah furono, ricordano orrificati testimoni, buttati giù dai tetti, 86 dei morti di cui 26 bambini erano passanti, le torture si sprecarono. Di Hamas è il rapimento di Shalit, i duecento missili lanciati dal 9 al 13 marzo su Israele, la distruzione del campo di ricreazione dell’Onu i cui criteri non erano confacenti ai criteri islamisti, l’arresto di 150 donne con l’accusa di stregoneria, l’uccisione del libraio cristiano che vendeva Bibbie, Rami Khader Ayyad, la rimozione dei corpi dei cristiani dai cimiteri. Che cosa può avere a che fare la giustizia con un processo celebrato in un simile ambito?
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