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Germania, la deriva che porta a Gauck

 

Joachim Gauck re borghese
Andrea Dernbach*
Una biografia coerente, un eroe della libertà, un oratore trascinante, un faro su cui orientarsi: è ancora lecito essere contro Joachim Gauck, o è già indizio di scarso patriottismo? In Germania avanza un’onda plebiscitaria, refrattaria a argomentazioni critiche. È l’apparentemente insaziabile nostalgia, non solo tedesca, per un monarca borghese che ci indichi la via. In quale direzione, non è poi così importante.
I verdi sono entusiasti per l’elezione alla presidenza della repubblica di un combattente per la libertà, che esorta sì i cittadini a impegnarsi, ma che poi considera «terribilmente stupida» la protesta del movimento Occupy contro lo strapotere della finanza («Ho già vissuto in un paese, la Rdt, dove le banche erano di stato», ha commentato Gauck). E ridicolizza i cittadini di Stoccarda che non vogliono si sconvolga il sottosuolo per spostarci i binari della stazione ferroviaria – progetto escogitato anche per regalare terreni edificabili alla speculazione edilizia – accusandoli di pensare solo al loro «orticello».
La Spd, che non è nemmeno riuscita a espellere dalle sue fila il patente razzista Thilo Sarrazin, già assessore alle finanze a Berlino e autore del libro La Germania si distrugge, dove paventava la degenerazione del livello intellettuale in seguito all’immigrazione di individui poco intelligenti e molto prolifici dall’Anatolia, si mette coerentemente al seguito di Gauck, che nel 2010 lodò come «coraggiosa» la suddetta opera di Sarrazin.
Nessuno dei politici e delle politiche che hanno intronizzato Gauck spende una parola sulla circostanza che, negli ultimi sessanta anni, è sempre stato un inquilino, mai un’inquilina, a risiedere prima nella villa Hammerschmidt a Bonn e poi nel palazzo di Bellevue a Berlino. Che non sia un caso, lo ha ammesso con franchezza il liberale Dirk Niebel, asserendo che Gauck sarebbe appunto «l’uomo migliore». Bingo! Avere il sesso giusto è dunque ancora nel 2012 la precondizione minima per accedere alla massima carica dello stato. Non solo nell’accezione biologica, anche sul piano ideologico.
Il migliore di tutti i possibili presidenti della repubblica parla solo, nelle sue interviste, di «padri della costituzione», dimenticando le poche ma illustre madri nell’assemblea costituente. E nulla ha ancora detto in pubblico su come pensa di assicurare l’esistenza economica della sua compagna Daniela Schadt che, come fosse la cosa più naturale del mondo, «ovviamente» dovrà rinunciare per lui alla professione di giornalista.
Su tutto questo – attenzione, pericolo di femminismo – silenzio. L’unico a non tener chiusa la bocca sui «rapporti personali» di Gauck è l’ultraconservatore socialcristiano Norbert Geis. Che però, chiedendo a Gauck di «mettere ordine» nella sua situazione familiare, non pensa a questioni di genere, ma vuole solo vedere rappresentato il paese da un uomo debitamente coniugato. La Germania, in un passato non troppo lontano, sembrava già essere più avanti che in questi giorni di entusiasmo per Gauck.
Così resta da sperare che il pastore Gauck nei prossimi cinque anni offra al paese quanto meno «orientamento» possibile. Meglio sarebbe se di questo si occupassero in prima persona coloro cui si rivolgono i suoi ripetuti appelli: i cittadini, we, the people. Non è un buon segno se i cittadini pensano di delegare così docilmente il campo dei valori a un re filosofo nel palazzo di Bellevue, mentre continuano a affidare l’«orientamento» della prole alle scuole confessionali e alle chiese – nel carosello dei candidati è girato anche il nome dell’ex vescovo protestante di Berlino, Wolfgang Huber.
Ciascuna e ciascuno potrebbe dover attingere liberamente al repertorio delle virtù civiche e democratiche, senza l’aiuto di professionisti dell’attribuzione di senso. In ogni caso, una repubblica che celebra come esemplarmente democratico un candidato unico alla presidenza, e in cui «grandi coalizioni» sembrano diventare la regola invece che l’eccezione – vedi la maggioranza Spd-Cdu varata nel settembre scorso a Berlino, e l’analoga soluzione che si profila nella Saar dove si voterà il 25 marzo – non ha bisogno di un re borghese. Le mancano piuttosto i repubblicani.
*Redattrice del quotidiano berlinese Der Tagesspiegel


 
Il pastore che si erige a paladino delle libertà

Guido Ambrosino

BERLINO
Domenica il presidente del parlamento Norbert Lammert ha letto il risultato dello scrutinio per l’elezione del presidente della repubblica. Su 1228 voti validi – l’«assemblea federale» conta 1240 membri, ma otto erano assenti e quattro schede sono risultate nulle – ben 991, quasi l’80 per cento, sono andati a Joachim Gauck, 126 alla candidata della Linke Beate Klarsfeld, 3 al candidato della Npd Olaf Rose, mentre 108 delegati della Bundesversammlung si sono astenuti.
Lammert ha chiesto a Gauck se accettava. E il pastore evangelico, portavoce del Neues Forum a Rostock negli ultimi mesi della Rdt, poi incaricato di custodire gli archivi della Stasi, ha assentito con voce sonora. Da quel momento, anche se bisognerà aspettare il 23 marzo per il giuramento davanti a Bundestag e Bundesrat in seduta congiunta, la Repubblica federale ha il suo terzo presidente nell’arco di quattro anni, dopo le dimissioni di Horst Köhler, caduto in discredito per aver ipotizzato interventi militari a difesa degli interessi commerciali tedeschi, e di Christian Wulff, indagato per corruzione. Se tutto andrà bene, Gauck resterà in carica per cinque anni.
Appassionata l’ovazione che si è levata nell’aula del Bundestag, con una nuova disposizione delle sedie per far posto, accanto ai 620 deputati, a altrettanti delegati dei parlamenti regionali. I partiti designano anche personalità della «società civile»: attori e attrici, star della televisione e dello sport. Con qualche sorpresa, come la nomina della femminista Alice Schwarzer su proposta, nientemeno, della Cdu.
Mai un candidato alla presidenza ha totalizzato tanti voti come Gauck, sostenuto da una megacoalizione tra democristiani, liberali, socialdemocratici e verdi. Il popolare Richard von Weizsäcker, alla sua rielezione per un secondo mandato nel 1989, si era fermato a 881 voti. Stupisce semmai, considerando il consenso di tutti i partiti tranne la Linke, che ben 108 delegati si siano astenuti. Tra loro due deputati verdi, che intendevano potestare per l’apprezzamento espresso da Gauck per il presunto «anticonformismo» di un razzista anti-immigrati come Thilo Sarrazin. A loro si devono essere aggiunti diversi socialdemocratici, a disagio per un candidato che tende a lodare il capitalismo reale come il migliore dei mondi possibili, e che, preso com’è dalla «libertà», sembra dimenticare le istanze di giustizia sociale e di uguaglianza.
Contenta per i suoi 126 voti la «cacciatrice di nazisti» Beate Klarsfeld, tre più dei delegati della Linke presenti. Nessun bonus invece per lo storico revisionista Olaf Rose, votato dai tre delegati inviati dai nazionaldemocratici nei parlamenti regionali della Sassonia e del Mecklenburgo.
Nel suo discorso inaugurale Gauck ha ricordato un altro 18 marzo, di 22 anni fa, «quando noi, milioni di tedeschi dell’est, abbiamo potuto finalmente essere cittadini, dopo 56 anni di regimi dittatoriali. Per la prima volta nella mia vita, all’età di 50 anni, ho potuto decidere, in elezioni libere e segrete, chi doveva governare». La dittatura di Hitler come quella di Ulbricht e Honecker? Gauck farebbe bene a precisare il suo goffo concetto di «totalitarismo». Magari rileggendo Hannah Arendt, che nel 1966 constatava lo smantellamento delle strutture totalitarie all’est dopo la morte di Stalin.

da “il manifesto”

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