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Monti-Merkel. Ma quanto vale questo vertice?

Per orizzontarci vi proponiamo un breve giro tra le testate italiane.

Partiamo con Il Sole 24 Ore, organo di Confindustria, che non si fa troppe domande. L’unica preoccupazione è sottolineare la necessità di “andare avanti” nello stravolgimento delle relazioni industriali in Italia.

«L’Italia può farcela da sola»

Isabella Bufacchi

BERLINO.
Dal nostro inviato
«C’è motivo di sperare, ma non di allentare gli sforzi», ha detto ieri il premier Mario Monti. «Le aste italiane hanno dato un segnale di speranza», ha rilanciato la cancelliera Angela Merkel. La speranza che la crisi dell’euro sarà risolta evitando che l’Italia ricorra allo scudo anti-spread e al sostegno Bce è l’invisibile filo conduttore della conferenza stampa dai toni molto distensivi che Monti e Merkel hanno tenuto ieri a Berlino, al termine di un incontro «costruttivo e approfondito».
La cancelliera, stando a fonti governative italiane, ha detto a Monti nel corso del bilaterale che l’Italia può farcela da sola, senza ricorrere allo scudo anti-spread. Per Berlino l’Italia è in grado di superare la crisi con le proprie forze purché prosegua nel cammino di riforme già intrapreso. Secondo Angela Merkel non c’è alcuna fretta di chiedere l’attivazione dello scudo: è quanto Monti va ripetendo da mesi. I due leader condividono pienamente l’impostazione per risolvere la crisi del debito sovrano europeo e rilanciare la crescita.
«La via imboccata è quella giusta», ha rimarcato la Merkel parlando dell’Italia e riconoscendo che «l’agenda degli impegni sulle riforme confermata da Monti è impressionante, eccezionale». «Sono convinta – ha puntualizzato – che gli sforzi dell’Italia daranno i loro frutti». «I tassi sui bond italiani sono molto alti – ha riconosciuto – ma sono certa che l’azione del Governo Monti sul percorso delle riforme sia fondamentale, sia un contributo essenziale per far calare i tassi e lo spread.
Le ultime aste italiane hanno dato un segnale di speranza in tal senso». Monti si è mantenuto sulla stessa linea. Ha asserito che l’Europa e l’Italia hanno «compiuto progressi significativi» negli ultimi sette-otto mesi: l’Italia in particolar modo ha «fatto sforzi rilevanti con il generoso apporto delle forze politiche, sociali e dei cittadini».
Il premier ha colto l’occasione a Berlino per confermare la sua condivisione della linea tedesca: «La disciplina dei conti pubblici e le riforme strutturali sono il prerequisito per la crescita», è stata la frase di Monti che è suonata come musica per le orecchie della Merkel. Il clima cordiale e volto all’ottimismo della conferenza stampa Monti-Merkel non ha riservato grandi spazi ai problemi scottanti che restano aperti.
La cancelliera si è limitata ad ammettere che i problemi del sistema bancario spagnolo e le valutazioni della troika in arrivo sulla Grecia continuano a ripercuotersi sullo spread italiano. «Siamo d’accordo con Monti che abbiamo un’agenda (europea Ndr) ambiziosa ma abbiamo i mezzi necessari per stabilizzare l’euro», ha sottolineato Merkel, ricordando che oltre ai fondi di stabilità Efsf e Esm c’è anche la Bce, che opererà nella sua piena indipendenza. Italia e Germania, ha aggiunto, sono d’accordo nell’assegnare all’Esm «un ruolo decisivo». Fino a un mese fa, però, i fondi europei da soli non bastavano a garantire la fine della crisi e qualsiasi ottimismo cadeva nell’ostentazione: Efsf/Esm, affiancati dall’Eurotower, ora danno fiducia.
Monti ha asserito che i progressi rilevanti compiuti dall’Italia, «le importanti riforme strutturali su pensioni, lavoro, concorrenza e liberalizzazioni e la spending review per tagliare la spesa pubblica», sono stati riconosciuti dai mercati e si sono riflessi nelle aste di questi giorni ma ha precisato che «non ci si può fermare, la Germania ci ha insegnato che gli sforzi nella politica economica e sociale devono andare avanti». Per questo il Governo «sta andando avanti in un’opera di avvitamento delle riforme nel tessuto economico, affinché siano implementate».
Anche l’Eurozona, tuttavia, per il leader italiano deve impegnarsi ad affrontare gli squilibri che permangono tra gli Stati membri perché la responsabilità nel portare avanti il progetto dell’euro con una visione chiara «non ricade solo sui singoli Paesi ma è comune». A domande dirette sull’eventualità di una richiesta italiana di attivazione dello scudo anti-spread, e delle nuove condizionalità che questo atto comporterebbe,
Angela Merkel e Mario Monti hanno risposto in maniera evasiva. Ma dietro le quinte, il messaggio della Merkel è stato chiaro: l’Italia può farcela da sola, senza scudo. «Ho piena fiducia nelle decisioni e nelle misure che il Governo Monti prenderà», ha detto pubblicamente la cancelliera, precisando che sulle modalità di un eventuale aiuto all’Italia «non si è parlato» e che sull’argomento «non c’è nulla di concreto». Tanto i fondi europei Efsf/Esm quanto la Bce stanno lavorando sui nuovi meccanismi di stabilità: in attesa di schiarite su questi fronti l’Italia non ha scelta, «deve portare avanti le sue riforme».

Il Corriere della sera abbozza un commento, oltre la cronaca.

Lo sguardo alzato
Stefano Lepri
Angela Merkel ha detto spesso che dalla crisi uscirà «un’Europa più forte». Nessuno la obbligava a fare questa profezia, nemmeno chi la accusa di avere «mancanza di visione». Né tantomeno quelli che sognano che la Germania si trasformi in una grande Svizzera.

Ma se le cose andranno come immagina la cancelliera, è molto probabile che nel corso di questo cammino il legame tra Berlino e Roma si rafforzi. Nonostante le tensioni e le difficoltà che abbiamo attraversato e che stiamo ancora vivendo. I rapporti tra Italia e Germania sono destinati a uscire, presto o tardi, dalla dittatura delle parole. Che sono state troppe, recentemente. Anche per la pesante concomitanza di scenari politici aperti in entrambi i Paesi.

Ma non sono gli oltranzisti a dettare la linea di una nazione, non sono le intemperanze di chi si fa strumentalmente portavoce delle preoccupazioni dell’opinione pubblica a rappresentare la verità. Non è un caso che vari economisti tedeschi, come ad esempio Clemens Fuest, abbiano sostenuto in questi ultimi giorni che l’Italia «ce la può fare da sola». Dati alla mano. E la cancelliera ha dimostrato di crederci. Comunque vada a finire, nel percorso compiuto in questi mesi, dalla prima visita di Mario Monti in gennaio fino ai colloqui di ieri, il vocabolario è profondamente cambiato.
A Berlino non si parla più di «compiti a casa», non ci si limita ad apprezzare gli sforzi compiuti. Si rileva invece, come ha fatto ieri Angela Merkel, che le riforme italiane sono in grado di migliorare la competitività dell’Europa. Il punto è proprio questo. È stato allargato l’orizzonte. La serietà del «metodo» italiano, sia pure con tutti i suoi problemi, le resistenze da sconfiggere, i nodi ancora da sciogliere, è la base di un linguaggio comune. Trovato il linguaggio, restano i contenuti.
Intanto, come ha scritto su queste colonne Sergio Romano, «senza i rischi che abbiamo corso negli ultimi mesi, non avremmo il Patto fiscale, non avremmo cominciato a parlare di Unione fiscale, e la Banca centrale europea continuerebbe a comportarsi come se la stabilità della moneta fosse la sua sola preoccupazione». Poi ha fatto il resto la determinazione pragmatica di Mario Draghi nel fare capire, soprattutto ad alcuni tedeschi, che la Bce è «un’istituzione dell’Unione Europea che ha una sua responsabilità».

Noi italiani, in fondo, ci stiamo affezionando al concetto di responsabilità. Con tutti i nostri guai, il Parlamento ha approvato a larga maggioranza il Patto fiscale, il trattato sull’equilibrio di bilancio firmato a Bruxelles, e abbiamo dato un significativo apporto al varo del pacchetto europeo per la crescita. Nel lavoro per scrivere la nuova agenda dell’Unione, che Germania e Francia vogliono ricominciare a fare insieme, possiamo temperare il rigorismo di Berlino e non farci impressionare dalle indispensabili rinunce a quote di sovranità nazionale temute da Parigi.
E se l’Europa è sempre più la prospettiva, il futuro politico italiano è molto meno incerto di quello che si potrebbe pensare. I tedeschi non hanno troppo di cui preoccuparsi. Ne terranno conto.

Il manifesto, invece, dà una cronaca ovviamente fedele, ma anche uno spunto di interpretazione “non allineato”.

«Niente licenza bancaria per il fondo salva-stati Esm»
Francesco Piccioni
Dai vertici bilaterali di solito non arrivano grandissime novità. La principale – dopo l’incontro a Berlino tra la cencelliera Angela Merkel e il presidente del consiglio italiano Mario Monti – sembra essere la «promozione» del governo tecnico, per «l’impressionante agenda di riforme» che ha messo in campo fin qui e per altre iniziative ancora in preparazione (supponiamo che abbiano evitato di analizzare il già disastrato «piano Balduzzi» sulla salute).
Un viatico buono per garantire ai mercati che l’Italia sta obbedendo agli ordini molto meglio e più degli altri Piigs, tanto da abbattere i rendimenti che lo Stato deve assicurare pur di piazzare i propri titoli di debito. Ieri il tesoro – addirittura prima dell’incontro – ha collocato senza problemi 9 miliardi di Bot a sei mesi, con solo l’1,58% di rendimento (era al 2,454% soltanto un mese fa) e Ctz a un anno e mezzo a 3,064% (4,87% a luglio). È in questa chiave che va interpretata l’affermazione che «molti sforzi fatti in questi mesi (dal massacro sulle pensioni alla «riforma» del mercato del lavoro, alla spending review, ndr), col generoso apporto delle forze politiche e dei cittadini, sono stati ripagati».
Il buon andamento delle aste di ieri non ha però influenzato lo spread tra Btp a 10 anni e i Bund tedeschi, rimasto comunque vicino ai 440 punti. Segno che gli investitori «hanno fiducia» sulle scadenze brevi, molto meno su quelle lunghe. E proprio il fatto che il mandato di Monti scadrà nella primavera prossima solleva il dubbio che «dopo» le cose potrebbero cambiare.
La domanda è stata anche posta e Monti ha «svelato» quel che tutti ormai dovrebbero aver capito: «siamo in una fase in cui, fatte importanti riforme strutturali, stiamo andando avanti nella spending review per i tagli nel settore pubblico» (chi è che ancora nega che siano in programma?), ma soprattutto «per essere sicuri che siano applicate» anche dopo le elezioni. Naturalmente non si può dire che i giochi post-elettorali sono già fatti, con una indefettibile conferma delle politiche «riformatrici» peraltro imposte dal fiscal compact (40-50 miliardi di tagli alla spesa pubblica ogni anno per i prossimi 20 anni). Monti preferisce un linguaggio più gesuitico: «sono molto fiducioso sul fatto che c’è una maturazione dei partiti politici» che lo stanno sostenendo; ma in ogni caso «le scelte dei parlamenti e dei governi avvengono in un quadro europeo che dà precise linee guida per le politiche nazionali». Insomma, chiunque «vinca» farà quel che è già stato scritto e prescritto.
La fiducia tedesca nella disciplina montiana è tale che, nel corso della discussione poi non riportata in conferenza stampa, Merkel avrebbe suggerito a Monti di non insistere nella richiesta di uno «scudo anti-spread» gestito dalla Bce, perché «potete farcela da soli». Analogo suggerimento sarebbe stato rivolto venerdì scorso al premier spagnolo Mariano Rajoy: «aspettare» di vedere l’effetto degli aiuti alle banche, per lo stato si vedrà poi.
Se è così, Merkel sta cercando di tener buona la sua fronda interna (i «falchi» guidati dal ministro dell’economia, il liberale Philipp Rösler, e dal presidente di Bundesbank, Jens Weidmann), attenuando al tempo stesso l’urgenza nell’attivazione dello «scudo». Tanto più se – come tutto fa prevedere – dopo la riunione del board della Bce, il prossimo 6 settembre, Draghi potrà iniziare una nuova campagna di acquisti di titoli di stato dei paesi in difficoltà.
A quel punto, per «compensare» sul fronte interno, Merkel si è detta ancora e sempre contraria alla concessione di una «licenza bancaria» per il fondo permanete salva-stati Esm, in quanto «non prevista dai trattati». Su questo, però, anche Draghi si era detto d’accordo, distinguendo con molta nettezza tra il ruolo della banca centrale e quello di fondi bene o male sottoposti alla contrattazione politica (prestiti in cambio di «riforme strutturali» monitorate in prima persona dalla troika, sul modello greco ed ora spagnolo).
Mario Monti ne ha approfittato per teorizzare che «certe cose che in questo momento non sono possibili potrebbero esserlo in altre condizioni», delineando anche lui – come Mario Draghi – un work in progress che avvicina per tappe successive l’obiettivo dell’«unità politica» europea, sotto la sferza intimidatrice dei «mercati».

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