Sui colloqui riavviati nelle ultime settimane dal mondo politico turco con Abdullah Öcalan, leader del Partîya Karkerén Kurdîstan tuttora rinchiuso in una sorta d’isola d’If nel Mar di Marmara, riflette più d’un analista. Gli incontri utilizzano anche funzionari dell’Intelligence, ma è chiaro che a discorrere con l’uomo simbolo della guerriglia kurda è l’entourage del premier Erdoğan. L’intento di riaprire i canali di trattativa rappresenta un passo di real politik che s’aggancia all’intervento con cui il capo del Pkk, poco più d’un mese fa, aveva bloccato il disperato sciopero della fame dei detenuti kurdi. Disperato per loro ma disperante per l’establishment di Ankara perché la possibile moria generalizzata dei prigionieri avrebbe creato all’Esecutivo ancor più problemi della repressione ripresa con durezza dall’estate del 2010. Se al posto dell’esponente dell’Akp ci fosse qualsiasi altro politico turco la musica sarebbe la stessa, poiché la non soluzione della questione kurda è una spina nel fianco della politica nazionale e internazionale dell’intero Paese, non solo del suo attuale governo. Anzi quest’ultimo, fra il 2007 e il 2008, sembrava vicino alla realizzazione d’un primo accordo che potesse soddisfare anche talune esigenze delle province orientali dove l’etnìa vive ed è radicata.
La ripresa degli incontri è un tentativo d’uscita dal vicolo cieco in cui s’è cacciata da due anni la politica erdoğaniana che ha subìto smacchi su vari terreni, anche quello dello scontro militare. Infatti le imboscate registrate dai propri soldati contano un centinaio di vittime da febbraio a oggi, dopo che per un paio di mesi le Forze Armate avevano bloccato buona parte delle azioni repressive sul confine iracheno e nell’area di Roboski, teatro un anno fa d’un massacro di civili che aveva avuto un’ampia e negarìtiva eco. La stessa posizione di evitare negoziati col Barış Demokratic Partisi, che perdura da un biennio, s’è trasformata in un boomerang visto che incarcerare deputati, attivisti, giornalisti di questo gruppo, certamente filo-kurdo ma non necessariamente filo-guerrigliero, è diventato imbarazzante di fronte alla comunità internazionale rispetto alla violazione dei diritti umani. Fra le accuse che la magistratura, nella veste giuridica, e un po’ tutto il ceto politico turco in quella legislativa e ideologica (oltreché repressiva) rivolgono agli attivisti del Bdp c’è il sostegno ad azioni illegali considerate terroristiche. In base a tale assunto è stata lanciata una campagna di criminalizzazione dell’impegno kurdo, bollato come sostanziale fiancheggiamento della lotta armata del Pkk.
Ad esempio nella provincia di Diyarbakır ben 150 fra sindaci, attivisti pacifisti, legali di diritti umani e politici presenti nelle file del Bdp sono stati accusati di costituire l’ala cittadina di supporto ai guerriglieri che agiscono nella zona. Ma fra gli ottomila, e forse più, detenuti accusati di terrorismo e adesione al Pkk c’è anche chi non ha altra “colpa” che l’appartenenza all’etnìa kurda. Così la mancanza di distinzione fra effettivi combattenti e altre figure, compresi i vicini di casa, prelevati nelle retate poliziesche con l’accusa di omertà e connivenza, mostra tutti i limiti dell’azione governativa che con questa prassi cementa ancor più il rapporto fra Pkk, Bdp e la propria gente. Un’ulteriore dimostrazione del parossismo toccato dalla fallimentare tattica di Erdoğan è quanto avviene in certe aule giudiziarie dove i processi sono rallentati da una sorta di “dialogo fra sordi” costituito dai giudici che interrogano gli imputati in turco e quest’ultimi che rispondono in kurdo. Del resto in città come la citata Diyarbakır, abitata per oltre il 70% da kurdi, la lingua parlata è questa. Se i rapporti, presunti o reali, fra guerriglieri e altre rappresentanze politiche kurde sono da dimostrare, quel che è certo e ormai preoccupa Ankara, è il legame sempre più stretto venutosi a creare fra i militanti kurdi, imprigionati o ancora in libertà, e la popolazione.
In tal senso il disegno – ipotizzato dagli accusatori turchi in toga, abiti civili e divisa – di collaborazione fra il livello legale e quello illegale dei partiti kurdi s’avvantaggia ampiamente sul progetto repressivo. L’uso della rete informatica, dei video inseriti sul web e ogni genere di contatto, anche quello personale o tramite la preghiera del venerdì sottolineano il collante identitario dell’importante minoranza. Gli imam delle province kurde rifiutano di recitare le preghiere in turco e il venerdì diventa un momento d’afflato religioso ed etnico. La riapertura dei dialoghi è dunque un atto che serve alla nazione turca intrappolata nella propria intransigenza. Ognuno vorrà le sue contropartite. I kurdi non s’accontenteranno di vantaggi economici prospettati già in altri frangenti. La questione dell’autonomia diventa centrale e forse potrebbe venire scambiata con la richiesta del disarmo dell’ala militare del Partito dei Lavoratori che preme al primo ministro. Nella sua posizione di grande prigioniero Öcalan può addirittura essere più libero di Erdoğan di avanzare richieste. Quest’ultimo è assolutamente costretto a trattare, accantonando l’idea di azzerare l’organizzazione nemica. Come rammenta un sindaco di fede kurda “Il solo modo di uccidere il nostro partito è uccidere il popolo”.
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Aldo
Pensare che Ocalan è rinchiuso anche grazie alla irresponsabilità politica de personaggi come D’Alema e Diliberto. E quest’ultimo avrebbe il coraggio di definirsi comunista presentandosi alle elezioni come alternativo al partito di Bersani e di D’Alema!!!