Tre anni fa il mondo arabo era in piena ebollizione all’insegna di libertà e giustizia. L’islam, non senza opposizioni, era l’involucro di una svolta che spingeva verso nuove élites e nuovi modelli. Non mancavano le contraddizioni e le violenze ma spirava un’aria frizzante d’innocenza. La primavera appunto. Gli orrori della Libia richiamarono un po’ tutti alla realtà ma sembrò che fosse solo il prezzo che andava pagato per uscire da un’esperienza abnorme o descritta come tale.
Di fatto, lo sconvolgimento si è rivelato meno innovativo di quanto alcuni speravano e altri temevano. Niente sarà più come prima ma a ben vedere il «vecchio ordine» sta riprendendo via via i suoi spazi: la vecchia borghesia occidentalizzante in Tunisia, i generali in Egitto, il regionalismo e il caos istituzionale in Libia. A distanza di così poco tempo resta ferma solo l’impressione che in ultima analisi l’esito dell’intero processo dipenda da ciò che sta succedendo o succederà in Siria. La forza della storia ha imposto i suoi diritti. Per la vicenda degli arabi e dell’arabismo, anche l’Egitto a confronto della Siria fa la figura di periferia.
Attorno alla Siria (non in Libia o in Egitto) è riaffiorata una specie di guerra fredda dell’era globale con forniture di armi e appoggi politici incrociati. Lo scatto di orgoglio o di interesse della Russia ha bloccato per il momento l’interventismo a macchia d’olio di Stati Uniti e Europa contro il regime di Damasco. Mosca ha dimostrato una capacità di gestire in positivo la diplomazia di cui la stessa Cina è priva o deve ancora dar prova (ripetendo una fattispecie che penalizzò Pechino rispetto al duo Usa-Urss fino all’inizio degli anni Settanta). Per un volta la Russia ha toccato una corda sensibile dell’opinione pubblica internazionale. Ne è prova la giornata di preghiera pluriconfessionale indetta da papa Francesco su scala mondiale.
Obama potrebbe essere tentato dai vantaggi di un neo-bipolarismo in Medio Oriente ma è frenato dalle rimostranze dell’asse improprio Israele-Arabia Saudita, sempre sul punto di compiere quel gesto folle che gli Stati Uniti vorrebbero evitare. Allo stato attuale, non si sa quale delle due facce – la guerra sul terreno o la tenzone diplomatica – sia più importante. I contendenti non sono esattamente gli stessi. Le frange estreme del jihadismo hanno quasi esautorato nella dimensione militare le formazioni che l’Occidente considerava i suoi possibili alleati all’interno del campo dei «ribelli» ma fanno fatica a trovare un riscontro efficace all’esterno.
Per questo, boicotteranno la Conferenza contando nel suo fallimento o quanto meno nell’ennesimo rinvio di un passo semplice e decisivo come sarebbe la sospensione concordata e accettata da tutti dell’invio di armi. Se non defezioneranno in extremis, ci saranno invece gli oppositori del Consiglio nazionale siriano, che sono però il più debole fra gli attori militari anti-Assad. A Ginevra non ci saranno nemmeno o parleranno poco gli elementi più disponibili a un compromesso che sicuramente agiscono dentro il regime di Damasco avendo come referenti tutti quelli – cristiani, palestinesi, drusi e una larga parte della borghesia mercantile sunnita – che vorrebbero veder finire la guerra. Il futuro della Siria è legato indissolubilmente alla tenuta della formula del «mosaico di minoranze».
La faida all’interno dell’islam che gli eventi siriani hanno eccitato vede contrapposti anzitutto sunniti e sciiti – essenzialmente Arabia Saudita da una parte e Iran dall’altra (in piena Realpolitik, con ambizioni e retropensieri che vanno ben al di là delle divergenze religiose) – ma anche Fratelli musulmani e salafiti fra gli ortodossi che seguono la Sunna.
È una guerra multipolare in parte «fredda» ma con fronti caldi anche fuori della Siria (vedi Libano e ancora più Iraq). Hamas si trova spiazzata dopo aver abbandonato Damasco ed essere stata tradita dal Cairo mentre il confronto Israele-Palestina sta riprendendo pian piano il rilievo che aveva perduto durante le Primavere arabe. Il panarabismo è ridotto a un fantasma. Sul caso egiziano il blocco sunnita si è rotto perché la Turchia non se l’è sentita di avallare il colpo di stato accettato e forse ispirato da Riad. L’appoggio che Ankara, al pari dello stesso governo americano, assicurava ai Fratelli in Egitto non ha salvato il governo di Morsi dall’offensiva più o meno coordinata della componente laico-liberale dell’opposizione e dell’esercito. Intanto la stella di Erdogan si è appannata. Probabilmente il capo del governo islamico turco, dopo lo smacco del Cairo, giocherà la carta siriana con molta attenzione per riguadagnare qualche posizione.
Le potenze fanno finta di avere a cuore la vita dei siriani e la salvezza della Siria ma pensano soprattutto a come collocare nel modo migliore le proprie pedine sui vari scenari. Anche gli aiuti umanitari per i profughi stanziati alla Conferenza di Kuwait City del 15 gennaio sono dosati in modo da soddisfare precise finalità politiche. Meraviglia che Ban Ki-moon abbia sabotato l’universalità che dovrebbe essere propria dell’Onu gettandosi sul primo pretesto per tener fuori Teheran dalla Conferenza. Il solo modo di legalizzare il «revisionismo» di una potenza come l’Iran è di coinvolgerla non di escluderla. Mettere dentro o fuori il governo di Teheran non è un piccolo ritocco alla lista degli invitati e all’ampiezza del tavolo: significa stravolgere il senso dell’agenda. Si fa fatica a credere che la Casa Bianca abbia agito con convinzione quando ha rilanciato e reso inevitabili le obiezioni contro la presenza della delegazione iraniana. Andrà perso il contributo di un interlocutore che fa della generalità dell’accordo (allargare la portata del negoziato con l’Iran, dettare norme di comportamento valide per tutti, non-proliferazione a livello regionale, reciprocità e comunicazione) la novità della presidenza Rouhani.
Una «legge» suggerita dalla storia delle guerre civili è che se non finiscono entro 10-12 mesi sono destinate a durare 10-12 anni. A tre anni dal suo inizio, molti dei contendenti, a cominciare forse da Assad, potrebbero preferire una belligeranza ad oltranza piuttosto che avventurarsi in una transizione di cui nessuno può prevedere l’esito. Per rompere lo stallo, come avvenuto per esempio nella guerra fra Nord e Sud in Sudan, la diplomazia deve assumere un piglio e una dirittura che le poco convinte conferenze sulla Siria a distanza di mesi l’una dall’altra non hanno mai dimostrato.
Il Manifesto, 23 gennaio 2014
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