Può appare incredibile dopo decenni di lotta internazionale contro il regime dell’apartheid, ma la sinistra internazionale – sia quella socialdemocratica, sia quella radicale – non ha detto nulla di serio su quanto sta accadendo in Sudafrica. Non un’analisi convincente, o quantomeno dettagliata, non una presa di posizione rispetto alla deriva politica ed economica di una classe dirigente che guida il paese ormai da molti anni e che non ha saputo – e in molti casi voluto – risolvere nessuno dei grandi problemi ereditati dai tempi in cui a governare con la mano dura e spietata era una ristretta minoranza bianca. Che ora è stata sostituita da una elite un po’ più meticcia, con la cooptazione di una parte della borghesia nera. Che però persegue esattamente gli stessi obiettivi e, negli ultimi mesi, con gli stessi metodi violenti e lo stesso disprezzo per le condizioni di decine di milioni di sudafricani di tutti i colori, alle prese con un paese ingiusto, diseguale e pericoloso. I lavoratori sono tornati ad essere carne da macello, sia quando la polizia spara e uccide minatori o braccianti, sia quando aziende per lo più straniere impongono ultimatum e ordinano licenziamenti di massa da un giorno all’altro.
La sinistra internazionale, e la sua stampa, sono state particolarmente reticenti su alcune questioni fondamentali, come ad esempio il ruolo delle grandi multinazionali che agiscono indisturbate nel Sudafrica post-apartheid. Oppure il ruolo del Partito Comunista Sudafricano e della confederazione dei sindacati Cosatu, che dall’inizio della transizione hanno fatto parte del patto politico-sociale che governa il paese. Nell’ultimo anno abbiamo assistito a mobilitazioni, rivolte e vere e proprie sommosse, da parte dei lavoratori, che hanno messo a dura prova il meccanismo di cogestione del potere economico e politico garantita dall’accordo tra multinazionali, direzione dell’African National Congress e confederazione sindacale. Abbiamo assistito anche all’emergere, grazie alle proteste dei minatori in particolare, a nuove forme di sindacalismo conflittuale e indipendente dall’Anc. Ma se da una parte la violenza della repressione ha bloccato almeno per ora l’ulteriore sviluppo delle lotte, dall’altra il grande problema è la mancanza di una alternativa credibile e all’altezza della sfida sul fronte politico.
Visto che la stampa di sinistra latita, vi proponiamo le ultime notizie dal Sudafrica pubblicate dall’agenzia cattolica missionaria, la Misna.
Gigante del platino annuncia chiusure e licenziamenti
I manager l’hanno definita “ristrutturazione” ma nel concreto potrebbe voler dire 14.000 licenziamenti in una regione del Sudafrica dove disoccupazione e povertà sono già un problema. I tagli, perché il “business” non rende più, sono stati annunciati dalla prima multinazionale al mondo nella produzione di platino.
I piani della Anglo American Platinum, questo il nome della società, sono stati resi noti ieri dall’amministratore delegato Chris Griffith. Non si tratterebbe di “una risposta di breve periodo” agli aumenti salariali ottenuti dai lavoratori lo scorso anno né tanto meno di una rappresaglia per gli scioperi. I licenziamenti, ha sostenuto Griffith, sono almeno in parte conseguenza del calo del prezzo del platino e servono comunque a salvare il posto di lavoro di altre 45.000 persone.
Secondo il quotidiano sudafricano The Times, il piano prevede già quest’anno la sospensione del lavoro in quattro miniere nella cosiddetta cintura del platino che abbraccia la città nord-orientale di Rustenburg. Nella “ristrutturazione” rientra anche la cessione della miniera dell’Unione, la più grande del mondo. Nel complesso la produzione della Anglo American Platinum dovrebbe diminuire di 400.000 once l’anno, fino a quota due milioni e 200.000.
All’annuncio dei tagli è subito seguita una prima mobilitazione dei lavoratori. Alcuni rappresentanti sindacali hanno minacciato una ripresa degli scioperi non appena dovessero disposti licenziamenti o chiusure. Lo scorso anno i lavoratori della Anglo American Platinum erano stati protagonisti di una delle tante battaglie che avevano attraversato il mondo delle miniere. Due mesi di sciopero avevano consentito di ottenere incrementi salariali di 400 rand, più o meno 40 euro.
Il Sudafrica è la maggiore economia dell’area sub-sahariana. Diciotto anni dopo la fine del regime di apartheid, però, il paese è ancora condizionato da forti disuguaglianze. L’ondata di rivendicazioni dello scorso anno era stata alimentata dall’uccisione da parte della polizia di 34 minatori, che manifestavano di fronte all’ingresso di una miniera di platino della multinazionale Lonmin, sempre nella regione di Rustenburg.
La politica e il capitale contro i minatori
Una rappresaglia nei confronti dei lavoratori, che conferma uno spostamento a destra dell’African National Congress: John Capel, direttore della fondazione cristiana Bench Marks, commenta in questi termini per la MISNA l’annuncio di un piano industriale che prevede il licenziamento di 14.000 minatori.
“L’annuncio della Anglo American Platinum – sottolinea Capel – è una rappresaglia per gli scioperi e gli aumenti salariali ottenuti dai lavoratori lo scorso anno; è un modo per dire: ‘Adesso la linea la dettiamo noi’”.
Secondo il direttore di Bench Marks, una fondazione del Consiglio sudafricano delle Chiese specializzata nello studio della “responsabilità sociale delle imprese”, i 14.000 licenziamenti previsti dal piano di “ristrutturazione” della più grande multinazionale del platino al mondo vanno letti anche alla luce di un’evoluzione del quadro politico. “L’African National Congress sostiene di mettere i poveri al primo posto – sottolinea Capel – ma in realtà si è spostato a destra: penso sia ai piani industriali del ministro Trevor Manuel che alla recente elezione alla vice-presidenza del partito di Cyril Ramaphosa, un miliardario legato mani e piedi al mondo degli affari”.
Secondo questa lettura, l’annuncio della Anglo American Platinum non è tanto il frutto del calo delle quotazioni del platino sui mercati mondiali quando la conseguenza di una nuova alleanza tra politica e grande industria. Un’alleanza pericolosa, avverte Capel, che mira a fare della lotta agli scioperi “non autorizzati” un’arma al servizio del “capitale”. Dinamiche già evidenti nella strage dei minatori di Marikana, falciati dai proiettili della polizia il 17 agosto mentre chiedevano salari meno bassi e dignità. “Quell’episodio – ricorda il direttore di Bench Mark – aveva rianimato il dibattito sulla necessità di un cambiamento in un paese dove, 18 anni dopo la fine dell’apartheid, ci sono ancora enormi problemi di disuguaglianza e povertà”.
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