Dai monti di Qandil, sud-est turco, all’area settentrionale irachena sono partiti per ora quindici fra uomini e donne che diventeranno oltre duemila a fine agosto. Lunga o breve non sarà la marcia in sé, ma una stabilizzazione del processo di pace fra la componente kurda e la Turchia. Ben più difficile potrà diventare l’applicazione della Road Map di Öcalanche lancia alla sua comunità divisa fra Turchia, Iraq, Iran, Siria l’idea della confederazione extranazionale. Un portavoce dei miliziani che hanno attraversato il confine ha dichiarato “Chiediamo al governo turco sincerità e reciprocità d’intenti, se l’accordo si svilupperà in maniera corretta tutto sarà veloce”. Il timore kurdo ha una doppia matrice: la prima rivolta verso lo stesso Erdoğan il quale con la scaltrezza che ne contraddistingue la prassi politica potrebbe usare l’accordo come tattica momentanea barattando col partito filo kurdo del Bdp i tre voti che in Parlamento mancano al suo Akp per approvare la nuova Carta Costituzionale. Il passo lancia un presidenzialismo disegnato a misura del futuro incarico dell’attuale premier.
L’altro timore è rappresentato dal peggior sentimento nazionalista che già s’è sviluppato attorno alla trattativa Mıt-Öcalan e ha visto l’ultradestra scagliarsi contro il “tradimento” erdoğaniano. Recenti sondaggi interni stanno evidenziando una flessione del gradimento degli accordi anche fra i settori più conservatori del partito islamico al potere, fattore non previsto dalla macchina propagandistica dell’Akp che invece dall’iniziativa s’aspettava un ritorno di credito e consensi. In realtà la popolazione turca è combattuta fra un bisogno di tranquillità esistenziale, che i trent’anni di sanguinosissima tensione coi kurdi non producono, e quel centralismo culturale a metà strada fra la visione kemalista e il mai sopito senso di superiorità dello spirito neo ottomano. I due aspetti si mescolano, rafforzati dai numeri dello sviluppo dell’ultimo decennio con cui ampi strati della società hanno visto aumentare Pil e benessere creando il doppio desiderio di entrata nel salotto buono del capitalismo dell’Unione Europea, sebbene sbiadito dalla crisi economica, e le velleità di potenza regionale, pur in un’area che ritrova tutta la sua infuocata pericolosità.
In ogni caso sia turchi, sia kurdi potrebbero avvantaggiarsi da un reale processo di pace. Come in ogni accordo le concessioni da fare a chi ha un progetto diverso esistono. La prima fase della complessa trattativa sta viaggiando su parziali compromessi: il Pkk rinuncia alla lotta armata ma non consegna il suo arsenale, seppur leggero, e trasferisce i guerriglieri nel Kurdistan iracheno. Il governo di Ankara si apre al patteggiamento senza rinunciare a dosi di repressione verso gli attivisti kurdi (e altri oppositori); né si pronuncia sulla liberazione di alcuni noti prigionieri, non solo il leader rinchiuso nell’isola di İmralı, ma figure pubbliche locali e nazionali, compresi dei parlamentari dello stesso Bdp di cui cerca voti di sostegno al progetto della Repubblica presidenziale. Eppure fuori da questa tentennante negoziazione, costellata di stop and go, pare esserci solo quel ritorno al passato sostenuto da militari golpisti, Lupi grigi e irriducibili del conflitto eterno.
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