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Iran, misteri presidenziali o solita lotta di potere

Il quadro politico della Repubblica Islamica è complesso e vede l’incrudimento di questioni col tempo cronicizzate (l’embargo economico occidentale) o a lungo protratte (il nucleare). Due fattori che nel Paese dividono la popolazione e certe componenti politiche contestatrici della controproducente linea dura dell’uscente Ahmadinejad, però le riavvicinano nei singulti d’orgoglio nazionale e nei disegni di potenza regionale. Quest’ultimi stanno ricevendo colpi dalla crisi siriana che si riflette su alleanze consolidate (Asad), storici avamposti (Hezbollah libanese), ai quali s’aggiungono le incertezze vissute dal governo iracheno para sciita di Al-Maliki sempre a rischio di guerra civile. Secondo certe tesi le vie trasversali con cui “consiglieri” statunitensi tengono sotto osservazione le prossime elezioni iraniane prevedono contatti coi gruppi  affaristici legati a Rafsanjani per condurre un attacco al clero conservatore e al suo sistema.

Ma Rafsanjani s’è sempre mostrato pragmatico e, a meno che non ci siano recenti risvolti personali e familiari, un conto è il business altro è la politica, secondo una tattica che l’avvicina più ai comportamenti cinesi che a quelli delle petromonarchie acquiescenti ai voleri geostrategici di Washington. La partita che si gioca nelle presidenziali iraniane ripropone l’intreccio fra le anime conservatrice e riformista e fra quella clericale e laica con schieramenti misti e intrecciati. Il primo fronte non nasce con “l’onda verde” o meglio quest’ultima ha rappresentato il volto più recente col solito ampio seguito giovanile in un Paese che ha il 45% della popolazione sotto il 25 anni, e con gli “approcci” occidentali anima gemella dell’ingerenza già sperimentata col “lavoro” dei think thank bushiani. Dunque non influsso culturale di moda e acconciature femminili da “mal velate”, rock e Coca (cola, non ancora cocaina) per ragazzi e ragazze di fine anni Novanta. In verità in Iran la droga circola come da noi, non foss’altro per il passaggio obbligato di oppio e derivati dall’Afghanistan verso Ovest. Il riformismo dell’era Khatami, comparso con la forza di 29 milioni di consensi nelle elezioni del 1997 e addirittura  un voto plebiscitario quattro anni dopo, ha avuto sviluppi autoctoni come le battaglie ideali e teologiche.

Ha dialogato col desiderio di trasformazione giovanile, intellettuale e della classe media urbana, creando speranze e delusioni e uscendo sconfitto dal braccio di ferro coi conservatori religiosi come l’ayatollah Yadzi che isolavano i progressisti alla Montazeri. Negli anni Novanta i chierici disposti a mettere in discussione il velayat-e faqih non trovarono sponda fra i laici alla Ahmadinejad lanciati nella politica dal partito dei Pasdaran. Al contrario contro i riformisti si consumava il compromesso fra tradizionalisti religiosi e conservatori laici come dimostrò la protezione offerta da Khamenei alla carriera dell’ex sindaco di Teheran. A fare da collante c’era proprio l’ayatollah degli affari cui la Guida Suprema assegnò la presidenza del Consiglio delle Scelte, organo che in molte circostanze frenò il cammino delle riforme proposte in Parlamento dalla maggioranza di Khatami. Rafsanjani è un uomo pubblico tuttora potente e fedele al sistema clericale che probabilmente lo esclude per ragioni diverse da un odierno tradimento filo-occidentale e para riformistico. Khamenei di certo ne conosce astuzie e capacità e, come nel 1997 lo contrappose a Khatami, avrebbe potuto usarlo contro il suo attuale avversario principe: il clan di Ahmadinejad che sostiene Mashaie.

Il fatto di averli esclusi entrambi rilancia un vecchio volto del potere teocratico che, nell’attuale accerchiamento nazionale e senza alternative credibili, può essere accettato da una popolazione costretta a scegliere fra l’insoddisfacente passato e il baratro della destabilizzazione manovrata e passibile d’ingerenze.

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