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Iran. Donne in rivolta contro la polizia religiosa dopo la morte di Mahsa Amini

Aveva solo 22 anni Mahsa Amini, la donna che il 14 settembre scorso ha perso conoscenza in una stazione di polizia a Vozara, in Iran, ed è entrata in coma, per morire poche ore dopo nella terapia intensiva dell’ospedale di Kasra.

Era a Teheran per visitare alcuni parenti insieme alla sua famiglia con cui vive a Saqqhez, nel Kurdistan iraniano, quando gli agenti della Guidance Patrol, la “polizia morale” iraniana, l’hanno arrestata perché non indossava adeguatamente il velo. Il foulard, infatti, non nascondeva integralmente i suoi capelli neri. E’ stata pertanto condotta in commissariato in stato di fermo, e dopo appena due ore è entrata in coma, in circostanze misteriose. La sua morte ha provocato reazioni di protesta nel Paese e nel resto del mondo.

La polizia ha negato qualsiasi forma di colluttazione con la donna, sia durante l’arresto che nelle ore di fermo in cui Amini sedeva in attesa di essere interrogata insieme ad altre donne. Il comandante della Polizia di Teheran, Hussein Rahimi, ha affermato che i suoi agenti hanno “fatto di tutto” per aiutare la donna e ha parlato di un “incidente sfortunato”. La tv di stato ha diffuso un video in cui in un commissariato una donna si alza dalla panca per parlare con un poliziotto e cade improvvisamente a terra. Nella versione del comando di polizia si tratterebbe appunto di Mahsa Amini.

A scatenare l’episodio, si legge in una dichiarazione della polizia del 15 settembre, sarebbe stato un arresto cardiaco. La famiglia di Amini, tuttavia, ha violentemente rigettato questa ipotesi, affermando che la ragazza godeva di ottima salute.

Nelle parole di Rahimi, sarebbero accuse codarde” quelle che si sono diffuse intorno a questa morte, secondo le quali il decesso si dovrebbe attribuire, invece, alle violenze degli agenti sulla detenuta. Diverse sono, infatti, le testimonianze che, in seguito alla notizia della morte inspiegabile della donna, hanno riferito che Mahsa Amini sia stata picchiata dagli agenti della “polizia morale” al momento dell’arresto, mentre veniva caricata sul furgone della polizia e poi probabilmente anche durante il fermo.

A ucciderla letteralmente di botte, secondo la versione che in poche ore ha investito il dibattito pubblico iraniano, sarebbero stati i poliziotti, tanto da farla arrivare in terapia intensiva, secondo quanto riferito dall’ospedale di Kasra, già in stato di morte cerebrale.

Al suo rientro dal vertice a Samarcanda con Putin e Xi Jinping, il primo ministro Ebrahim Raisi ha trovato un Paese travolto da uno tsunami di proteste di iraniani, ONG e comunità internazionale, che nessuna versione ufficiale sull’accaduto diramata dalle tv nazionali è riuscita a frenare. E’ per questo che ha annunciato che il ministero dell’interno svolgerà un’indagine per accertare le cause della morte della ragazza.

Che si sia trattato di morte cardiaca improvvisa o meno, non è la prima volta in Iran che una donna, oltre a subire l’arresto, sia vittima di violenze a causa del suo modo di vestire. Dai tempi della rivoluzione di Khomeni nel 1979, infatti, in Iran è obbligatorio il rispetto delle norme di abbigliamento e di comportamento dettate dalla Sharia.

Con il premier Mahmoud Ahmadinejad, il Paese si è dotato addirittura di una “polizia morale”, un corpo di agenti, uomini e donne velate integralmente di nero, chiamati a vigilare che tutte le donne, non solo quelle musulmane, abbiano i capelli e il collo completamente coperti da un hijab. Per chi trasgredisce, la pena può essere il carcere.

Nel 2017 si accese nel Paese un movimento di ribellione che vide molte donne, soprattutto volti pubblici, liberarsi dei veli e lasciare liberi i capelli in segno di protesta contro la “legge morale”. Il risultato fu, però, piuttosto un inasprimento della sua applicazione. Diversi video online iniziarono a testimoniare arresti sempre più violenti di ragazze con ciuffi di capelli liberi sulla fronte o trecce che si affacciavano sotto al bordo dell’hijab. Schiaffi, pugni, donne messe all’angolo da altre donne che le accusavano di condotte vergognose e peccaminose, poi gettate brutalmente su furgoncini della polizia per raggiungere il commissariato.

E’ per questo che l’episodio della morte di una ragazza di 22 anni arrestata per motivi “morali” ha riacceso nelle donne iraniane una rabbia mai sedata. L’ennesima morte, l’ennesima violenza alla loro dignità, che le ha fatte esplodere nell’urlo di Morte al dittatore”.

Sabato mattina, infatti, si sono svolte le esequie di Mahsa Amini nel suo villaggio di Sagghez, a 460 km da Teheran. Le autorità avrebbero chiesto alla famiglia di svolgere il funerale all’alba, in modo che il rito si celebrasse tra pochi intimi e lontano dalle attenzioni mediatiche, ma i familiari di Amini non hanno accettato di salutare la ragazza prima che il sole non si fosse levato alto in cielo e intorno alla loro casa non si fossero radunate centinaia di persone.

Urla di protesta si sono presto sollevate dalla massa di partecipanti all’eco di “Morte al dittatore”, rivolto all’ayatollah Khomeini, ritenuto responsabile dell’uccisione della donna per mano della “polizia morale”. Le donne nella folla si sono liberate dell’hijab e molte di loro l’hanno innalzato su bastoni di legno come una bandiera. Nelle stesse ore, anche nella città di Teheran una folla marciava al grido degli stessi inni e con le stesse donne svelate pronte a sfidare il braccio della “polizia morale”.

Contro la folla, che dopo il rito funebre ha continuato a protestare e si sarebbe radunata poi davanti all’ufficio del governatore, si è scatenato l’esercito, con spari e lacrimogeni: negli scontri sarebbero rimasti uccisi quattro manifestanti e almeno 15 sarebbero i feriti.

Non solo per le strade: anche i social sono stati travolti dalla rabbia. In poche ore, l’hashtag #MahsaAmini è stato menzionato oltre due milioni di volte. “Togliersi l’hihab è un crimine punibile in Iran. Chiediamo alle donne e agli uomini nel mondo di mostrarci la loro solidarietà”, si legge sull’account di una ragazza. E ancora “La cosiddetta polizia morale l’ha arrestata arbitrariamente prima che morisse per far rispettare le leggi abusive, degradanti e discriminatorie del Paese che impongono il velo. Tutti gli agenti e gli ufficiali responsabili devono essere sottoposti alla giustizia”.

Sotto all’hashtag #MahsaAmini, insieme ai tweet si sono moltiplicati video di donne disposte a tagliarsi i capelli in segno di protesta. Un paio di forbici in mano e uno sguardo furioso in camera, mentre i loro capelli cadono a terra e l’acconciatura si trasforma in un caschetto improvvisato.

Dure anche le denunce di diverse personalità del mondo dello spettacolo. Il regista premio Oscar Asghar Farhadi ha scritto “Sono disgustato, stavolta da me stesso. Tu sei su un letto d’ospedale, ma sei più sveglia di noi, mentre noi siamo tutti in coma. Noi ci fingiamo addormentati, di fronte a questa oppressione senza fine. Noi siamo complici di questo crimine”, a commento di una foto della ragazza in coma.

https://twitter.com/FerFeriStratus/status/1572268605386940417?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E1572268605386940417%7Ctwgr%5Ec275e55d8f14ce188949ee7b3027cbba5c702190%7Ctwcon%5Es1_c10&ref_url=https%3A%2F%2Fpagineesteri.it%2F2022%2F09%2F21%2Fvarie%2Firan-donne-in-rivolta-contro-la-polizia-morale-dopo-la-morte-di-mahsa-amini%2F

L’ONG Iran Human Rights ha chiesto l’intervento delle Nazioni Unite. “Indipendentemente dalla causa ufficiale della morte annunciata dalle autorità”, ha dichiarato il suo direttore Mahmood Amiry-Moghaddam, “la responsabilità dell’omicidio di Mahsa Amini ricade su Ali Khamenei come leader della Repubblica islamica, Ebrahim Raisi come capo del governo, e delle forze di polizia sotto il loro comando”.

Ferma la condanna di Amnesty International: “Le circostanze che hanno portato alla morte sospetta della ventiduenne Mahsa Amini, che comprendono accuse di tortura e maltrattamenti durante il fermo, devono essere indagati penalmente”. L’obbligo del velo e la sua applicazione venivano denunciate anche nel rapporto annuale dell’ONG sull’Iran relativo al 2021, in cui si legge:

Le discriminatorie norme sull’obbligo di indossare il velo hanno continuato a condizionare la vita delle donne, determinando molestie quotidiane, detenzioni arbitrarie, aggressioni equiparabili a tortura e altro maltrattamento e diniego di accesso all’istruzione, all’impiego e agli spazi pubblici. Almeno sei difensori dei diritti delle donne sono rimasti in carcere per aver condotto campagne contro il velo forzato”.

Le carceri iraniane in cui le donne iraniane rischiano di restare rinchiuse per anni per contravvenzioni alle norme dell’abbigliamento rappresentano tra l’altro gironi infernali in cui si rischiano quotidianamente torture e condanne a morte arbitrarie. Proprio nei primi mesi del 2022, infatti, Amnesty International ha registrato un preoccupante inasprimento della giustizia iraniana: da gennaio a giugno, sono state giustiziate almeno 251 persone. “Una media di una condanna a morte al giorno”. L’anno scorso, il numero totale delle esecuzioni era stato di 314.

I detenuti possono morire per omicidio, stupro, rapina, ma anche, denuncia la ONG per i diritti umani, “relazioni omosessuali tra persone adulte e consenzienti, le relazioni extraconiugali e i discorsi ritenuti “offensivi nei confronti del profeta dell’Islam”, così come reati descritti in modo del tutto vago come quello di inimicizia contro Dio” e “diffusione della corruzione sulla terra””.

Per questo la protesta delle donne iraniane e le loro denunce sui social rappresentano un atto di coraggio estremo, con il quale rischiano tutto. Si può diventare detenute politiche per molto meno, ed essere rinchiuse in prigioni tristemente famose come quella femminile di Qarchak, che ospita oltre 2.000 prigioniere.

Il reparto 8, conosciuto come “il Rione delle Madri”, è quello delle prigioniere di coscienza. Tra di loro, la scrittrice Golrokh Iraee, arrestata nell’ottobre del 2016 perché nella sua casa era stato trovato un suo racconto contro la lapidazione. Rilasciata nel 2017 dopo che col suo sciopero della fame suo marito aveva richiamato l’attenzione internazionale, è stata di nuovo arrestata alla sospensione dello sciopero della fame e allo spegnimento dei riflettori mediatici sul suo caso.

Per aver criticato sui social il record di esecuzioni capitali detenuto dall’Iran, anche Atena Daemi, attivista per i diritti umani, è stata condannata a 7 anni di carcere e rinchiusa in una cella di Qarchak. I suoi post su Facebook e su Twitter sono stati ritenuti “offensivi” nei confronti dei pubblici ufficiali. E’ ancora rinchiusa nel carcere di Evin, dove protesta con scioperi della fame contro le condizioni di vita nel carcere e contro la pena di morte.

Un tempo sede di un allevamento industriale di polli, il carcere femminile di Qarchak ospita più donne di quante ne possa contenere, in condizioni disumane. Le detenute vivono in assenza di acqua, di cibo sufficiente, con le finestre sbarrate, senza il diritto alle più elementari norme igieniche. Non sono solo la fame e le malattie che si diffondono, però, a tormentarle.

La direttrice del carcere, Soghra Khodadadi, è stata accusata di aver creato condizioni “insopportabili” per le prigioniere e di aver incoraggiato abusi nei confronti di prigionieri politici e pacifici. Nel giugno 2016, in seguito a un episodio in cui le guardie carcerarie avevano picchiato “brutalmente” le detenute, Amnesty intervenne per richiedere la chiusura del carcere. Nel 2021, il Dipartimento del Tesoro americano ha indirizzato le sue sanzioni economiche anche alla Khodadadi.

Nonostante i rapporti e le denunce internazionali, però, il carcere continua a tenere rinchiuse centinaia di donne, condannate alla tortura per reati d’opinione. Lo stesso reato che compiono in questi giorni le donne che si tagliano pubblicamente i capelli sotto a un hashtag. Resta la percezione, però, che calato l’interesse internazionale, nei commissariati e nelle carceri iraniane si continuerà a morire e in strada le donne continueranno a essere vittime indifese della “polizia morale”.

* da Pagine Esteri

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9 Commenti


  • Mauro

    …un altra rivoluzione ‘colorata’?


  • Mario Bianchi

    @Mauro: io sarei più cauto. Dopo tutto non bisogna essere sionisti o fan della Casa Bianca per capire che vivere in una teocrazia (specie per noi comunisti) non dev’essere una cosa esaltante, detto con il massimo rispetto per l’Iran e gli iraniani. Altrimenti si rischia sempre di giudicare tutto attraverso gli occhi della geopolitica. Un po’ come succede per la Russia d’altronde.


  • Gianni Sartori

    “KURDISTAN, KURDISTAN OCCHI E LUCE DELL’IRAN!”

    In Iran non si placano le proteste per l’assassinio diJîna Mahsa Amini

    Gianni Sartori

    Mentre in data 22 settembre i telegiornali parlavano ancora di “soltanto” una decina di manifestanti uccisi dalla polizia nel Rojhilat (il Kurdistan orientale sotto amministrazione iraniana), alcune agenzie ne calcolavano già una trentina.

    E’ probabile che ormai le vittime siano più di cinquanta e destinate, purtroppo, ad aumentare. Per non parlare della sorte di centinaia di feriti e di migliaia di persone arrestate.

    Nei primi cinque giorni (e cinque notti, come a Parma nel ’22) manifestazioni e scontri erano avvenuti soprattutto a Sine, Dehgulan, Diwandara, Mahabad, Urmia e Piranshahr.

    Il 19 settembre veniva indetto dal PJAK (Partito per una vita libera nel Kurdistan) e da KODAR (Società democratica e libera dell’Est-Kurdistan) lo sciopero generale. Sciopero a cui avevano aderito i partiti affiliati al Centro di cooperazione dei partiti del Kurdistan iraniano, il Partito comunista iraniano-Kurdistan, altri partiti del Kurdistan orientale, numerose organizzazioni della società civile e vari esponenti politici.

    Il 20 settembre, nel corso di una manifestazione, a Kermanshah veniva uccisa un’altra donna curda, Minoo Majidi, madre di tre bambini.

    Anche lei colpita dalle pallottole (dal “fuego real”) delle unità speciali anti- sommossa, prontamente mobilitate dal regime.

    Nel frattempo le proteste per l’uccisione di Jîna Mahsa Amini (deceduta per emorragia cerebrale a seguito delle torture subite) si sono allargate all’intero Paese.

    In almeno una quindicina di città uomini e donne (la gran parte delle quali aveva gettato via il velo) sono scesi in strada. Non solo aTeheran, ma anche a Mashhad (nel nord-est), Tabriz (nord-ovest), Rasht (nord), Ispahan (centro) e Kish (sud). Bloccando la circolazione, incendiando i veicoli della polizia, lanciando pietre sulle forze di sicurezza e distruggendo i ritratti degli ayatollah. Oltre naturalmente a scandire slogan contro il regime. Sia quello più diffuso tra le donne curde del Bakur e del Rojava: “Jin jiyan azadi “ (La Donna, la Vita, la Libertà), sia uno di nuovo conio:

    “Kurdistan, Kurdistan…occhi e luce dell’Iran”.

    Particolarmente brutali gli interventi della polizia e ormai, come dicevo, i morti si contano a decine.Secondo la giornalista Ammar Goli (Erdelan) le forze di sicurezza del regime iraniano utilizzerebbero anche le ambulanze per reprimere i manifestanti, in violazione del diritto internazionale. Infatti “molte delle persone arrestate vengono portate nei centri di detenzione a bordo delle ambulanze in quanto le forze di sicurezza sanno che non verranno assalite dai manifestanti”.

    E ovviamente “molti manifestanti feriti si rifiutano di recarsi negli ospedali per paura di essere arrestati”.

    Dalla giornalista Behrouz Boochani un appello alla comunità internazionale affinché la voce delle donne iraniane insorte contro la dittatura islamista non rimanga inascoltata:

    “Le donne dell’Iran sono fonte di ispirazione: stanno costruendo la Storia nelle strade ribellandosi alla dittatura. Non ignoratele; se siete femministe, siate la loro voce, amplificate il loro appello! Questa è una rivoluzione femminista storica”.

    Gianni Sartori


  • marco

    sarà….
    ovviamente massimo è il supporto per le libertà civili e la parità di diritti, nonchè per uno stato laico.
    Però… è curioso come questo fatto (per altro non confermato da esami autoptici) abbia scatenato un polverone in modo così coordinato in questo momento.
    Cioè a ridosso del vertice SCO che potrebbe segnare la morte definitiva del petrodollaro e proprio quando i droni iraniani stanno cominciando a dare ottima prova di se sui campi di battaglia ucraini.
    Inoltre senza nulla togliere alla solidarietà per la causa curda, dobbiamo con pragmatismo marxista, riconoscere che quello sventurato popolo è stato spesso negli ultimi anni vittima di errori di calcolo politico che lo hanno portato ad essere strumento (certo inconsapevole) degli interessi americani in quell’area del mondo.
    dall’iraq, alla siria.
    Insomma ci sono molteplici ragioni per prendere con le pinze gli avvenimenti attuali e analizzarli molto, molto bene, prima di concedere un entusiastico sostegno a quella che potrebbe rivelarsi l’ennesima rivoluzione colorata.


  • Ali

    La cosa certa è che USA e l’occidente nel loro disegno del grande medio oriente vogliono balcanizzare Iran e installare i loro regimi fantocci. La situazione attuale e le politiche interne del governo iraniano ovviamente darà alibi necessario ai nemici dell’Iran e a quelli che sognano una rivoluzione colorata per Iran il che sarà tragica non solo per gli iraniani ma, visto la importanza geopolitica dell’Iran, possiamo dire per intero medio oriente. Sarà il popolo iraniano a decidere per il suo futuro e rivendicare i suoi diritti senza nessuna ingerenza straniera sopratutto quella dell’imperialismo americano che come dimostra la storia recente con la esportazione dei suoi “valori” ha causato milioni di morti e distruzione in tutti i continenti.


  • Felics

    Per i motivi espressi correttamente in commenti di altri qui sopra prendo decisamente con le pinze (più lunghe possibile) tutto ciò che ci viene narrato in maniera manichea dagli strumenti propagandistici (pervasivi e multiformi, spesso difficili da qualificare come tali a prima vista) del pensiero unico neoliberale. Anche perché sono numerose le fonti primarie che non dipingono l’Iran come l’inferno sulla terra, e spesso sono donne e non maschi bianchi eterosessuali. Ad ogni popolo andrebbe consentito il suo libero processo storico ed evolutivo, l’importazione coatta e strumentale di modelli occidentali o di operazioni coperte finalizzate a cambi di regime o semplicemente a balcanizzare un area specifica non ha mai portato nulla di buono, nemmeno alle cosiddette minoranze che si pretende di difendere.


  • Gianni Sartori

    LA RIVOLTA INSURREZIONALE CONTINUA IN ROJHILAT E IRAN

    Gianni Sartori

    Sono trascorse ormai quasi due settimane dall’inizio della rivolta per l’assassinio di Jina Mahsa Amin. Rivolta che dal Kurdistan “iraniano” (Rojhilat) si è estesa all’intero Paese, coinvolgendo ben 156 località. E il numero delle vittime – com’era prevedibile – è andato crescendo in maniera esponenziale. Alcune fonti locali ipotizzano la cifra di almeno 240 manifestanti caduti sotto i colpi della repressione. Gli arresti sarebbero oltre dodicimila (di cui buona parte nel Rojhilat).

    Ma nonostante il massiccio dispiegamento di Pasdaran, milizie Bassidj e agenti non in divisa che si infiltrano nei cortei, le proteste proseguono autoalimentandosi.

    Le manifestazioni e gli scontri avvengono soprattutto nelle ore notturne, sia a Teheran che Tabriz, Machad, Chiraz, Racht e Karadj.

    Soltanto nella serata del 25 settembre gli insorti si sono scontrati con i Pasdaran in una decina di zone di Teheran (Narmak, Sadeghieh, Hafthoz, Ekbatan, Sattar Khan…) e sulla superstrada Shariati. Tra gli slogan scanditi: “Abbasso Khamenei, abbasso la dittatura”. Sempre a Teheran sono stati incendiati vari cartelloni di propagande del regime e alcune moto della polizia. Così nella zona di Narmak dove altre moto e un’auto della polizia sono state date alle fiamme. Altre manifestazioni si svolgevano contemporaneamente a Pounak, Pardis e Ekbatan. Così come nelle zone universitarie. A Karadj,per rallentare le proteste, la polizia ha tolto l’elettricità. Invano.

    Inoltre dal 26 settembre numerosi insegnanti e studenti universitari sono entrati in sciopero della fame per protestare contro i massicci arresti di studenti.

    Ma nel frattempo, adottando la stessa strategia di Ankara, il 28 settembre Teheran ha voluto colpire nuovamente i curdi (perno dell’attuale rivolta contro il regime) anche nel nord dell’Iraq, nel Kurdistan “iracheno” (Bashur).

    Nell’ultimo attacco una quindicina di persone sono state uccise e una cinquantina ferite (soprattutto donne e bambini, comunque civili) in un attacco dei Pasdaran con uso di artiglieria, missili e droni contro un campo di rifugiati curdi a Koysinjaq (a est di Erbil).

    Questi attacchi durano ormai da una settimana e ufficialmente avvengono per colpire le basi della resistenza curda iraniana che fornirebbe sostegno alla rivolta in atto. In realtà ad essere colpiti sono soprattutto obiettivi e persone civili. Come a Koya dove il bombardamento di una scuola ha provocato una ventina di feriti tra i bambini.

    Due delle ultime vittime appartenevano al PDK-I (Partito democratico del Kurdistan d’Iran).

    Altri attacchi sono avvenuti contro presunte basi di Komala, del Partito per libertà del Kurdistan (PAK) e del Partito per una Vita Libera in Kurdistan (PJAK).

    Attaccati ormai simultaneamente sia da Ankara che da Teheran così nel Kurdistan “siriano” come nel Kurdistan “iracheno”, i Curdi tuttavia non si arrendono.

    Da segnalare la polemica, in realtà una legittima rivendicazione, sorta in merito all’utilizzo generalizzato da parte dei manifestanti dello slogan curdo e femminista “Jin, Jiyan, Azadi” (Donna, Vita, Libertà).

    Nel primo giorno della protesta si era cominciato a sentirlo scandire nella città natale di Jina Mahsa Amini, Saqqez. Da qui poi aveva preso piede nell’intero Paese.
    Tuttavia, come segnalano (citando uno scritto di Hawzhin Azeez) alcuni militanti curdi “gli iraniani e le iraniane che lo gridano spesso non ne conoscono né l’origine, né l’autentico significato. Rappresenta una lotta avviato ormai da 40 anni (dalla fondazione del PKK nda), al prezzo della vita di migliaia di donne e uomini curdi in lotta contro il colonialismo turco, persiano e arabo nel Kurdistan”.

    A loro consigliano, prima di scandire ancora “Jin, Jiyan, Azadi” di informarsi e di chiedersi se in quanto appartenenti comunque a uno dei gruppi dominanti possono legittimamente appropriarsene.


  • Gianni Sartori

    IRAN: CHI STRUMENTALIZZA CHI?
    Gianni Sartori

    Ovviamente ogni rivolta, soprattutto quando configura passaggi rivoluzionari, oltre a quello – scontato – di venir sanguinosamente repressa, corre il rischio di essere strumentalizzata, incanalata, dirottata altrove.

    Da qualche decennio su alcuni contenuti ineludibili delle attuali ribellioni (il femminismo, l’ecologia, l’antirazzismo, i diritti umani, la critica dell’antropocentrismo…) abbiamo visto volteggiare gli avvoltoi (metafora: chiedo scusa ai simpatici volatili) delle classi dominanti e delle loro “operazioni umanitarie” (a base di bombardamenti e invasioni) imperialiste.

    Questo vale anche per ciò che sta accadendo in Iran, ma senza per questo togliere una briciola di legittimità all’insurrezione nata dalla protesta per la morte di Jina Mahsa Amini, una giovane curda di 22 anni (arrestata e torturata per un velo “portato male”) il 16 settembre.

    Rivolta innescata nel Rojhilat per poi estendersi all’intero paese.
    In ogni caso compito dei ribelli curdi e iraniani sarà quello di vigilare per non diventare la carne da cannone di chi vuole semplicemente sostituire un potere indegno con uno magari peggiore.

    E’ il caso della destra iraniana (in genere nostalgica dello scià) che – secondo alcuni osservatori curdi – starebbe cercando di “impadronirsi del movimento popolare” e che godrebbe “del sostegno di forze di destra in Occidente”.

    Per questo Somayeh Rostampour, una curda iraniana, sta mettendo in guardia contro “il tentativo dei realisti (assolutamente di destra) di recuperare la contestazione in Iran”.

    Per l’attivista “così come avvenne con il Khomeinismo negli anni settanta, attualmente i realisti godono dell’appoggio a livello mondiale delle forze più di destra, talvolta fasciste e in genere antifemministe”.

    Si starebbe assistendo al confronto tra due opposte visioni del mondo: “la destra maschilista e la sinistra femminista”.

    La prima gode del sostegno di chi possiede mezzi finanziari e li mette a disposizione, mentre l’altra è appoggiata dalle forze progressiste, dalle donne e dagli oppressi e diseredati del pianeta.

    Schema troppo semplice? Forse, ma non certo privo di fondamento.

    Spiega ancora Somayeh Rostampour che “se vogliamo scrivere esattamente il contrario di “Jin, Jiyan, Azadî” (Donna, Vita, Libertà, uno degli slogan più gridati in questi giorni, non solo nel Rojhilat nda) dovremmo scrivere “Uomo, Patria, Popolo”.

    Ossia un “elogio del nazionalismo, del governo patriarcale e del culto del suolo basato su un modello maschile”.

    Invece l’attuale movimento si distingue da quelli precedenti proprio in quanto non è “soltanto una rivoluzione politica, ma anche una rivoluzione sociale”. Rivolta a “trasformare simultaneamente le strutture sociali, politiche e storiche”.

    Secondo l’attivista curda la storia del Paese è talmente mescolata al maschilismo che “non è tollerabile (per il regime ovviamente nda) assistere allo spettacolo di uno spazio autonomo femminile come quello dell’attuale rivolta per ben due settimane di seguito”.

    In effetti, nel più benevolo dei giudizi, le femministe sono state definite “stravaganti”.

    Quanto ai progetti di restaurazione della monarchia, rientrati in gioco infiltrando (o almeno cercando di infiltrare, infettare…) il movimento, non si tratterebbe soltanto di diffondere un visione reazionaria (tanto quanto l’islamismo), ma di un vero e proprio “progetto politico sostenuto finanziariamente e politicamente dalle forze di estrema destra in maniera coordinata e sistematica”.

    Applicando in maniera perversa il concetto situazionista di “detournement”, si sta cercando di snaturare questa ribellione radicale nel suo opposto. Ossia in un movimento sì di opposizione, ma dai contenuti regressivi: sessisti, maschilisti e razzisti.

    Quindi dietro la retorica di certa destra monarchica iraniana (anche o soprattutto all’estero) a base di “Uniamoci” si va profilando un progetto di opposizione all’attuale regime, ma intriso di ostilità diffidenza, esclusione nei confronti delle donne, delle minoranze sessuali, dei gruppi etnici non persiani. E di aperta ostilità (premessa di future repressioni) verso la sinistra rivoluzionaria e i dissidenti in genere.

    E questi propositi di strumentalizzare l’odierna rivolta, si potrebbero coniugare con quelli abituali dell’Occidente.
    Rivestire, mascherare le pulsioni neocoloniali con l’esportazione – non richiesta – del modello occidentale.

    Gianni Sartori


  • Oigroig

    Grazie Gianni! Questo “prendere con le pinze” una rivolta contro una teocrazia in cui le persone rischiano la vita e la libertà mentre da noi si fa fatica a mobilitarsi e ci si lascia menare per il naso da elezioni e padronato e postfascisti… mi lascia alquanto sorpreso… Dovreste dare più spazio qui ai tanti paesi in rivolta senza la solita pregiudiziale autoritaria della geopolitica d’accatto… My two cents.

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