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“Super Tuesday”: vincono Clinton e Trump, ma non muore nessuno

Quando il Super Martedì deve ancora finire, Hillary Clinton e Donald Trump hanno ottimi motivi per stappare una bottiglia di quelle buone, ma i loro avversari non sono ancora morti. Per usare una metafora calcistica: è come se fosse finito il girone d’andata del campionato, e già si possono fare fondate ipotesi su come andrà a finire la storia. Ma non è detta l’ultima parola.
Dicevamo, tra i democratici Hillary ha vinto bene in Alabama, Arkansas, Georgia, Tennessee, Texas e Virginia, ha praticamente pareggiato in Massachussets ed è stata sconfitta da Bernie Sanders in Colorado, Minnesota, Oklahoma e Vermont. Il conto dei delegati è abbastanza eloquente: Clinton 1000, Sanders 371. Il biglietto vincente per la Casa Bianca di delegati ne vale 2.300. In sostanza: Hillary ha la vittoria in tasca, ma il suo rivale socialdemocratico sta combattendo con molto onore, dimostrando che il socialismo può fare breccia anche nell’elettorato statunitense: è una novità, magari da poco, ma comunque apprezzabile rispetto al passato. Facile che per lui ci sarà un posto importante, se i democratici alla fine vinceranno le elezioni a novembre.

Più frastagliato il fronte dei repubblicani, con Trump che comunque vince quasi ovunque, sia pure con percentuali mai faraoniche. Il fatto è che tra i suoi avversari non emerge uno sfidante reale, ma a turno tutti ottengono un buon secondo posto o una vittoria che finora li tiene ancora in ballo. Nessuna illusione, però: Donald è ormai a un passo dalla vittoria, l’hanno capito tutti. Non è un caso, d’altra parte, che il suo discorso stanotte sia stato introdotto dal governatore moderatissimo del New Jersey Chris Christie, segno che nel Gop qualcuno si sta già allineando. Lo stesso Trump, d’altra parte, ha usato parole più moderate del solito – è arrivato a spendere buone parole persino per Planned Parenthood, il pool di cliniche private odiato dai repubblicani perché, tra le altre cose, pratica l’interruzione di gravidanza – e prova adesso a mostrare il suo volto umano con l’obiettivo di non spaventare troppo i moderati, cioè quelli che alla fine della fiera decidono chi vince e chi perde le elezioni vere.

L’establishment repubblicano, tuttavia, continua a mischiare le carte, spaventato a morte dall’imprevedibile miliardario newyorkese. I dati però sono molto difficili da leggere: in Alabama Trump ha vinto con il 43% e alle sue spalle si è piazzato Cruz con il 21%, che sarebbe in vantaggio (di poco) su Trump in Alaska e starebbe poco dietro in Arkansas. In Georgia dietro a Donald invece c’è Marco Rubio, ma il distacco è abissale: 39% a 24%. In Massachussets, roccaforte dei democratici, lo sfidante è Kasich che però ha raccolto un poco entusiasmante 18% contro il 49% di Trump. In Minnesota, Oklahoma e Tennessee si fa rivedere Cruz, ancora secondo. E ancora Cruz stravince in Texas (44% contro il 27% di Trump), mentre in Vermont (il feudo di Sanders) è Kasich a piazzarsi appena dietro a Donald. In Viriginia, infine, il testa a testa tra Trump e Rubio finisce con la vittoria del primo, con uno scarto piccolo però (35% a 33%). Insomma, un gran casino: se è chiaro che l’uomo da battere è Trump, non si capisce bene chi dovrà essere lo sfidante ufficiale. Già, perché se tutti hanno perso, nessuno è stato ferito a morte, e sia Cruz, sia Rubio, sia persino Kasich possono rivendicare una vittoria o un piazzamento in grado di non far naufragare la propria campagna.
Da considerare anche tutta la faccenda dei sondaggi: ieri sera, per la prima volta, tutti i principali istituti demoscopici statunitensi erano d’accordo nel sostenere che sia Clinton sia Sanders batterebbero piuttosto agilmente Donald Trump alle elezioni di novembre. Dire che i vertici di Washington non sanno che pesci pigliare è un eufemismo.
Il problema è di natura politica e riguarda una tendenza difficile da cambiare: storicamente i repubblicani pescano la maggioranza dei propri consensi nelle zone rurali, nelle campagne della Deep America. Peccato che la popolazione si stia progressivamente spostando verso le città, dunque nelle braccia dei democratici: d’altra parte era difficile far convivere nello stesso partito gli interessi dei grandi miliardari e quelli delle classi sociali più deboli. Inoltre bisogna considerare che ormai le cosiddette minoranze si apprestano a diventare maggioranze, almeno in certi stati: è il caso del Texas, storica roccaforte repubblicana in cui ormai gli ispanici sono il 40% della popolazione e offrono ai democratici la prospettiva di conquistare nuovi consensi anche lì.
Trump lo sa e il suo discorso fondamentale è una via d’uscita (demagogica, certo) abbastanza semplice da questo conflitto: io sono nuovo del gioco, sono contro l’establishment che vi ha impoveriti e ho creato decine di migliaia di posti di lavoro. Perché alla fine, al di là di tanti bei discorsi, la gente vota con il portafoglio.

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