Menu

Taksim, una resistenza per l’esistenza



Conosciamo la professoressa Mancini da qualche tempo, avendola incontrata anni addietro a Istanbul. Il suo è uno dei casi della migrazione intellettuale italiana: rifiutata dalla nostra scuola “riformata” dalla Gelmini, è approdata sul Bosforo dove invece può insegnare matematica in un liceo. Si tratta di un istituto italiano che privilegia docenti in madrelingua. L’avevamo sentita la scorsa settimana a commento dei primi giorni della protesta di Gezi park. Poi a tratti, fra una sua dormita di due ore a notte e una “pentolata” di protesta nei vicoli del quartiere di Beyoğlu dove abita. Da lì testimonianze della violenza poliziesca e della fierezza cittadina. Ora che anche il gruppo Repubblica-Espresso ne celebra la storia (http://espresso.repubblica.it/dettaglio/io-italiana-tra-gli-occupygezi/2208288) riprendiamo il discorso sui caldi giorni di Istanbul.

 

Professoressa Natalia, torniamo ai temi della protesta

I contenuti della mobilitazione si sono arricchiti dell’indignazione per la violenza dispiegata che rivela il carattere autoritario di questo governo. Non mi stanco di ripeterlo soprattutto dopo aver letto o sentito i servizi di Repubblica e Corsera: qui non si è mai protestato contro il pericolo di islamizzazione della società. Mai. I giovani sottolineano il concetto di democrazia dimenticato dal governo.

 

E la repressione che ha fatto muovere anche il presidente Gül qualcuno dice in antitesi con Erdoğan?

La violenza subita è solo un corollario. Nel Paese non si può esprimere il dissenso, questo è il problema. Non solo per iscritto come accade a tanti giornalisti, di cui le statistiche forniscono dati preoccupanti, ma anche a voce, per strada e non solo manifestando magari in gruppi sparuti e irriducibili. Da tempo i toni di Erdoğan sono diventati più aggressivi. Gli ultimi due anni, prima che Öcalan imponesse l’abbandono della lotta armata ai guerriglieri del Pkk, hanno visto una degenerazione del conflitto con stragi indiscriminate dei civili operate dall’esercito. Se ora la Turchia intraprende il dialogo non è solo perché si rende conto che in tanto tempo la lotta armata ha prodotto 40.000 morti e nessun risultato concreto. La cartina di tornasole sta in gran parte nel fatto che il premier ha bisogno d’una maggioranza più vasta per cambiare la Costituzione in senso presidenzialista e gli serve il voto dei deputati kurdi.

 

Solo una questione di real politik?

Non solo. In questi giorni lo slogan più urlato è: “Faşizme karşı, omuz omuza” che letteralmente sta per “spalla a spalla contro il fascismo”. Lo dicono in piazza, basta fare qualche domanda a qualsiasi attivista o manifestante di ogni orientamento ideologico per rendersene conto. Lo scandiscono in ogni angolo cittadino. Persino a scuola. Basta chiedere ai miei studenti, da ieri vestiti tutti in lutto e con le guance tinte dei colori della bandiera turca. Rosso e bianco. Tutti molto fieri e contenti di me per avermi vista nel parco occupato che domenica la polizia ha lasciato ai manifestanti, sì forse per intercessione di Gül. Per tutti Taksim è un simbolo. “E’ molto importante per il popolo turco” mi diceva ieri Çağla, nel suo italiano stentato di prima liceo, mentre mi baciava addirittura la spalla…

 

Un simbolo di tutto il popolo turco?

Direi di sì, Taksim è il simbolo della Turchia. Della sua laicità, ma soprattutto della sua esistenza generale. Non entro nel merito di un argomento delicatissimo… Però è importante sapere che, se oggi i turchi cercano un luogo dov’è scritta la loro storia lo trovano a Taksim. E la storia moderna ha origine sulle ceneri dell’impero ottomano, dopo quella che loro chiamano “Rivoluzione”. Quella che Erdoğan vorrebbe cancellare, resuscitando i fasti del passato osmanlı. Contro il fascismo di questo e di tutti i Paesi siamo uniti anche noi che abbiamo “adottato” questo popolo e che ci sentiamo in qualche modo da lui adottati.

 

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

1 Commento


  • almanzor

    Sarebbe interessante sapere meglio se la definizione di fascismo per i manifestanti comprende anche il ‘kemalismo’ (l’accenno finale al valore fondante della ‘Rivoluzione’ post 1918 non rassicura su ciò). Per fortuna non si vedono ritratti di Ataturk tra di loro, almeno per ora.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *