C’è il buio nel cupo volto di Erdoğan che annuncia un ritorno a casa per dare seguito alla grandeur sua e degli affari. Spera di avere con lui gli attivisti che già menano le mani come nella nativa Rize e le Forze dell’Ordine che si riconoscono nel collega morto. Il premier rilancia epiteti aggressivi chiamando terroristi e loro amici anche i giovani festosi e pacifici come la “ragazza in rosso” assurta a simbolo del rifiuto di Gezi.
Sull’altro fronte ricorrono i paralleli sulle lotte, sindacali, quelle di tre anni or sono, con già sperimentati sit-in diventati quasi contropotere. Fu definita la “Comune Sakarya” la tendopoli sistemata ad Ankara dai lavoratori della Tekel, la manifattura di tabacchi e alcolici privatizzata nel 2000 e poi venduta alla British American Tobacco per 1,73 miliardi di dollari. Quella scelta portò alla fine del 2009 la chiusura di 12 fabbriche e la mobilità di diecimila dipendenti che si pensava di ricollocare altrove mentre Erdoğan diceva: “Non possiamo distribuire sussidi a lavoratori che non producono”. Anche allora il premier ripeteva la litanìa di gruppi estremisti sostenitori di una lotta di “retroguardia”.
Al liberismo, islamico o laico, l’opposizione a privatizzazioni, licenziamenti, riduzione dei salari e dei diritti paiono lotte estremiste senza senso. Terrorismo sociale.
Quella mobilitazione fu una parziale vittoria della piazza, può far riflettere come l’unità d’intenti in campo economico aveva visto scegliere la privatizzazione dal premier socialdemocratico Ecevit e continuarla da Erdoğan. Dunque Chp e Akp, divisi per il potere ma uniti nella diffusione del sistema capitalistico, che aveva avuto campioni del liberismo in patrioti convinti come il presidente Özal, morto nel ’93 per un avvelenamento rimasto misterioso.
Non scopriamo oggi che il percorso modernizzatore dell’islamismo moderato (e politicamente conservatore) mutua i princìpi di mercato già fatti propri dallo Stato kemalista nella versione antica, in quella golpista e poi patriottico-liberale e repubblicana. Capitani d’industria e manager turchi appartengono a famiglie che si legano ai vari partiti e vengono da questi favorite, oppure fluttuano perché il business è incolore e inodore. Noti i casi di Dogan, boss della potentissima holding di media (Hurriyet, Posta, quotidiani sportivi, rotocalchi, tivù e la figlia piazzata nella Tusiad, la Confindustria locale) di fatto oppositore del partito islamista.
Ma negli ultimi mesi, nonostante l’ambiziosa agenda internazionale che pure l’ha esposto a critiche, e soprattutto ora con la polemica su Gezi park, l’erosione del potere personale del primo ministro risulta evidente.
La sua arroganza inizia a creare imbarazzi e dissensi nello stesso partito. Non solo da parte di Gül che, se le cose non precipitano per tutti, darà vita a un duello all’ultimo voto alle presidenziali, ma da altre componenti.
Se è vero che Fetullah Gülen è l’ispiratore occulto del sistema islamico del’Akp pur non facendo parte della formazione politica, i circoli più puramente gülenisti palesano malumori per i colpi di testa erdoğaniani, per il suo attaccamento al potere in aperto scambio di favori con un’ampia cerchia di lobbies affaristiche.
Sintomi si percepiscono sul quotidiano Zaman, ispirato e finanziato dal movimento, e anche su Yeni Safak media più vicino all’Akp che condanna il proliferare dei centri commerciali proposti come luoghi d’incontro per cittadini-consumatori (sic, ma da noi è lo stesso). Digeriti nei paesoni dell’Anatolia profonda, meno nella cosmopolita Istanbul.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa