* Il Manifesto 21 giugno 2013
«Allo stato attuale ci sono 137 persone stipate ormai da giorni all’interno di alcuni bus della polizia. Tecnicamente risultano disperse». Hatice Odemis continua ad aprire file sul suo pc, all’interno degli uffici del Tohav (Toplum ve hukuk arastirmalari vakfi), un organismo che fornisce assistenza legale e medica agli arrestati del Gezi parki. Tra una telefonata e l’altra tenta di spiegare i fatti. Dopo il blitz di sabato scorso nel parco, dopo i lacrimogeni e le violenze della polizia turca, ora è il tempo della conta degli arrestati. Circa 400 solo tra sabato e domenica, 883 dall’inizio della protesta, sul finire di maggio. Di questi, 35 sono minorenni e quasi 140 non rispondono all’appello: «Si tratta di persone che sono state arrestate – spiega Hatice – ma non ancora identificate. Abbiamo raccolto le testimonianze degli avvocati che stanno cercando di sbrogliare la matassa. Ci sono manifestanti che si trovano ancora stipati all’interno degli autobus con i quali sono stati accompagnati ai commissariati, sabato scorso. Da allora sono chiusi là dentro, con le manette ai polsi, senza possibilità di uscire e comunicare con l’esterno. Mangiano, dormono e aspettano dentro le vetture. Una sorta di tortura psicologica». I legali che stanno seguendo 24 ore su 24 i manifestanti arrestati, sono riusciti a riscostruire la dinamica degli eventi e a dare una collocazione a coloro di cui si sono perse le tracce. Ma di 11 di essi non si ha alcuna notizia. «Le famiglie sono disperate – spiega Hatice – cercano da giorni di avere conforto dalle Istituzioni, ma invano». Prende il telefono in mano e inizia a chiamare alcuni dei numeri che ha appuntati su un foglio. La prima è una ragazza di vent’anni, che la notte di sabato 15 giugno non è tornata a casa. Risponde la madre, conferma tutto, ma chiede di evitare di finire su un giornale, anche se straniero. Stesso copione la seconda e la terza volta. Uno studente e un docente, entrambi campeggiavano nel Gezi parki. Nessuno sa che fine abbiano fatto. E le famiglie non vogliono esporsi, vivono nel terrore che ogni passo falso possa costare la vita ai propri cari. «Stiamo facendo il possibile per capire dove siano finiti questi ragazzi – spiega anche Umit Efe, che dirige l’Ihd (Inslan Haklari Dernegi), un’altra delle associazioni che stanno seguendo la questione – ma la polizia e le Istituzioni non ci aiutano affatto». Anche Efe conferma la storia degli «autobus neri»: «Chi è ancora là dentro – dice – appartiene soprattutto a movimenti e partiti di sinistra radicale, i più invisi a Erdogan: il partito social-democratico (Sdp) e L’unione socialista dei lavoratori (Isp). In questi giorni, ai loro danni, è stata condotta un’operazione speciale. Molti attivisti sono stati prelevati all’alba, nelle proprie case. Hanno perquisito la redazione del magazine antagonista Barikat, sequestrando tutto. Temo sia solo l’inizio di un’operazione in grande stile».
Per seguire tutti i casi dal punto di vista dell’assistenza legale e medica è nata una piattaforma che, oltre alla Tohav e al Ihd, comprende anche l’associazione degli avvocati Chd (Çagdas Hukukçular Dernegi) e gli attivisti per i diritti umani della della Tihav (Türkiye Insan Haklari Vakfi). Centinaia gli avvocati che stanno fornendo il proprio contributo per assistere tutti i fermati. Spesso sacrificando il sonno. «Stiamo raddoppiando l’impegno per non lasciare nessuno indietro» spiega l’avvocato Ramazan Nemir, proprio colui che ha fornito assistenza legale al fotografo livornese Daniele Stefanini, dopo il suo arresto, avvenuto subito dopo lo sgombero del Gezi Parki. «È stato arrestato – spiega – mentre come altri fotografava gli agenti in tenuta anti sommossa, nell’atto di sparare candelotti di gas e proiettili di gomma. Un accusa assolutamente priva di fondamento. Ricordo che potava sul volto e ad una gamba i postumi di un’aggressione feroce da parte della polizia».
L’azione degli avvocati si fa sempre più difficile, man mano che trascorrono le ore. Le violazioni si ripetono. Anche se quella più eclatante, resta il blitz dello scorso 12 giugno, quando le forze dell’ordine entrarono all’interno della Çaglayan Courthouse, il tribunale di Istanbul, arrestando 47 avvocati. Il motivo? Inscenavano una protesta contro le violenze avvenute in piazza. L’avvocato Huseyin Bogatekin era tra questi: «Ci eravamo riuniti nel cortile del Palazzo di giustizia – racconta – dopo qualche minuto i poliziotti sono entrati nell’edificio con caschi, scudi e manganelli. Hanno strattonato e insultato me e gli altri colleghi, molti dei quali indossavano la toga. Ci hanno legato le mani dietro la schiena, schiacciandoci il volto al suolo, come fossimo criminali comuni. Quindi ci hanno condotti in commissariato. Erano in gran numero, molti di più degli avvocati presenti». Anche l’avvocato Bogatekin fa parte della rete costituita per aiutare le famiglie dei ragazzi uccisi, dispersi e soprattutto delle migliaia di feriti, spesso in maniera grave e invalidante, nel corso della protesta. Un impegno che, a suo dire, sta alla base degli arresti del 12 giugno: «È una palese violazione della libertà di espressione – spiega – inoltre la polizia si è permessa di entrare all’interno di un Palazzo di giustizia e di arrestare degli avvocati, solo perché osavano manifestare. Quando hanno iniziato a portar via i colleghi, in molti si sono affacciati dalle finestre, protestando. A quel punto un ufficiale, con un megafono, ha minacciato l’intero tribunale: “Se continuate a gridare, verrete arrestati anche voi!”. Appena appresa la notizia, centinaia di colleghi, da ogni parte della città hanno raggiunto il tribunale. Il risultato è che, appena qualche ora dopo il sit-in di quelle poche decine di avvocati, è andata in scena una manifestazione spontanea di almeno un migliaio di persone».
Ma l’azione repressiva opera ormai su più fronti. Dopo avvocati e giornalisti, nel mirino della polizia stanno finendo anche i medici e i paramedici che la scorsa settimana hanno prestato soccorso ai feriti durante gli scontri. Sotto inchiesta è finita niente meno che la Chamber of Medics, la corporazione dei sanitari. La dottoressa Hardan Toprak ne fa parte: «Siamo sotto attacco» testimonia. Poi racconta ciò che ha visto in queste settimane: «Molti ragazzi – dice – sono stati colpiti agli occhi dai proiettili di gomma sparati dagli agenti. Molti hanno perso la visione binoculare. Troppi ragazzi. Il che lascia pensare ad una sorta di tiro al bersaglio». La lista dei feriti agli occhi ha continuato ad allungarsi senza tregua, dall’inizio delle proteste: Mahir Gur, Sepher Wahabbi, Muharram Dalsuren, Burak Unveren, Yusuf Murat Ozdemir, Vedat Alex, Selim Polat, Erdal Sarikaya e Necati Testo. Per la maggior parte studenti sotto i trent’anni. Ma tra i casi che stanno facendo più scalpore c’è quello di un bambino di appena 4 anni, che sarebbe stato colpito ai testicoli da un proiettile. E quello di due donne, madre e figlia, entrambe ferite ad un occhio, nello stesso luogo. «C’è chi lamenta effetti collaterali del gas sparato dagli agenti, anche giorni dopo averlo inalato – afferma ancora Hatice Odemis – in tutti però c’è la stessa convinzione: il livello di terrore è superato. Ora non abbiamo più paura».
Turchia: proteste, repressione e arresti continuano
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