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Dopo la “primavera turca”, un’estate curda?

Dietro lo slogan “governo, fai un passo avanti!” migliaia di manifestanti si sono riuniti domenica 30 giugno nelle province curde di Diyarbakir, Mersin e Adana. A Diyarbakir, capitale curda della Turchia meridionale, la polizia ha rifiutato l’autorizzazione all’organizzazione di manifestazioni, e in piazza si è ripetuto il triste rituale dei TOMA (i panzer turchi), dei lacrimogeni e degli idranti nell’infallibile stile già collaudato in piazza Taksim.

“UN GEZI PARK CURDO”?

I curdi stavano protestanto per gli avvenimenti di venerdì 28 giugno, quando circa 250 manifestanti si sono opposti alla costruzione di una nuova postazione militare a Kayacik, nel distretto di Lice, nella provincia di Diyarbakir. Negli scontri tra la polizia e gli attivisti, Medeni Yildirim, un ragazzo di appena 18 anni, è rimasto ucciso e una decina di persone sono state ferite gravemente.

Nonostante le raccomandazioni del governo, la prudenza del partito curdo Bdp nel tentativo di non alterare i fragili equilibri del processo di pace, le zone curde non sono scampate ai fumi dei lacrimogeni e agli scontri di piazza. Si ritiene che questo sia l’incidente più grave dalla dichiarazione del cessate il fuoco da parte del leader del Partito dei Lavoratori (Pkk) Abdullah Ocalan, lo scorso 21 marzo.

L’episodio è avvenuto in un momento delicato, mentre gli ultimi militanti del Pkk si ritirano dal paese verso l’area nord-irachena, concludendo il cosiddetto “primo stadio” del processo di pace. I negoziati erano stati chiari: nessuna violenza durante il ritiro.

Così alla morte del diciottenne Yildirim è subito seguito il monito del comandante delle forze armate del Pkk, Murat Karayilan, che ha confermato: “Se necessario, i miei uomini sono pronti a riprendere le armi”. S’incrina così la fiducia nel governo, mentre il portavoce dell’Akp Huseyin Celik tenta di correre ai ripari : “Fratelli curdi, l’incidente di Lice è solo una versione curda di Gezi Park ordita da coloro che vogliono sabotare il processo di pace”.

PROVOCAZIONI PUNGENTI

La violenza di venerdì scorso non è un episodio isolato, in quanto s’inserisce in una complessa costellazione di provocazioni che ormai da tempo sembrano minacciare i negoziati. In primis l’arroganza dialettica di Erdogan, che nella manifestazione di Kazlicesme lo scorso 16 giugno non ha mancato di definire il leader curdo Ocalan un “terrorista”, le cui bandiere erano ingiustamente accostate a quelle turche dai manifestanti di Gezi Park.

Seconda e ben più grave, la decisione di imporre un’ammenda di 3.000 lire turche alle famiglie delle 34 vittime curde dell’incidente di Uludere, zona in cui due F16 turchi nel dicembre del 2011 hanno aperto il fuoco in seguito a movimenti sospetti sul confine iracheno. Il giudizio sugli autori dell’incidente – tutt’ora impuniti – è stato invece deferito ai tribunali militari.

Infine, e connessa agli eventi di Lice, la decisione di costruire 130 nuove postazioni militari nelle province curde della Turchia meridionale. “I villaggi non hanno acqua, mancano le canalizzazioni”, commenta il co-segretario del Bdp Selahattin Demirtas, “eppure il governo decide di costruire 130 nuove postazioni militari. Perché?”.

LA RISPOSTA CURDA

A poche ore di distanza dagli scontri di Lice, lo stesso venerdì 28 giugno, nell’autostrada tra Diyarbakir e Bingol un gruppo di uomini a volto coperto ha fermato l’ufficiale turco Yetkin Beğen mentre guidava la sua auto privata. Secondo l’agenzia stampa Doğan dopo un breve scontro verbale, l’uomo sarebbe stato rapito e la sua auto ritrovata carbonizzata in un terreno vicino nel pomeriggio di sabato.

Dalle prime informazioni diffuse, i rapitori sarebbero membri del Partito dei Lavoratori curdo e – se così fosse – si sarebbe aperta una prima grave breccia nei delicati equilibri del processo di pace. Mentre le investigazioni sulla scomparsa dell’ufficiale continuano, sabato si sono tenuti i funerali diciottenne ucciso negli scontri.

Il coro che ha accompagnato le esequie ha assunto la valenza di un monito diretto al governo, e in particolare al primo ministro : “Fai attenzione, Erdogan, non ci spingere di nuovo sulle montagne”, riferendosi agli avamposti da cui per decenni i militanti Pkk hanno preparato gli attacchi in territorio turco.

Nonostante solo pochi giorni fa, in una lettera consegnata dal carcere di Imrali, Ocalan si fosse dichiarato “fiducioso nel successo” del processo di pace, in queste ore sembra aleggiare sempre di più lo spettro di un ritorno alla violenza e di un rovinoso fallimento dei negoziati.

UN DESTINO COMUNE

Mentre da più parti si chiede, per allentare le tensioni, di procedere al più presto sul cammino delle riforme per l’inclusione di maggiori diritti per la minoranza curda, i destini delle proteste di Gezi Park sembrano unirsi in una profonda sinergia con gli eventi di Diyarbakir.

Uniti non solo nelle violenze, ma anche nelle aspirazioni democratiche contro una gestione del potere sempre più autoritaria, il popolo turco e quello curdo, per la prima volta, parlano una lingua comune.

Queste sono anche le parole del co-segretario del Bdp Selahattin Demirtas: “Al momento turchi e curdi stanno cominciando a capirsi reciprocamente e si sta verificando una svolta significativa”, ha dichiarato, sottolineando che “le nostre relazioni sono state avvelenate per un secolo. Ma nell’unione per la democrazia la popolazione può superare questo avvelenamento e spianare la strada verso la pace”.

Dopo la “primavera turca”, quindi, molti analisti turchi e internazionali attendono ora una “estate curda” che possa portare veramente la Turchia verso un cammino democratico e di pace.

http://osservatorioiraq.it – 01 Luglio 2013 

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1 Commento


  • Emanuela

    Grazie 🙂

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