Cresce il nervosismo e il disappunto delle forze politiche e della guerriglia curda di fronte all’inerzia del governo Erdogan nei confronti del processo di pace faticosamente lanciato con il Pkk e già in pieno stallo.
Il nuovo leader del Partito del lavoratori del Kurdistan – Cemil Bayik – ha inviato un vero e proprio ultimatum all’esecutivo di Ankara, affermando che se il governo non farà un gesto concreto e inequivocabile entro il prossimo 1 settembre ci saranno conseguenze. “Va presa un’iniziativa. La scadenza è il 1 settembre” ha detto Bayik all’agenzia di informazione curda Firat. “Se non ci saranno iniziative prima del 1 settembre sarà chiaro che l’obiettivo non è trovare una soluzione” ha aggiunto, avvertendo che in tal caso il popolo curdo dovrà difendersi. Già nelle scorse settimane il Pkk aveva emesso un “avvertimento finale” all’esecutivo di Recep Tayyip Erdogan, accusandolo di sabotare il processo di pace, avviato grazie a lunghi colloqui che hanno coinvolto anche il leader curdo imprigionato Abdullah Ocalan. Il PKK ha criticato l’esecutivo liberal-islamista che con una vera e propria provocazione ha ordinato la costruzione di nuove caserme dell’esercito in territorio curdo ed ha rinnovato l’ingaggio di milizie curde collaborazioniste per militarizzare i territori dai quali la guerriglia indipendentista si è ritirata per obbedire alla tabella di marcia concordata con l’Akp. Ocalan, che dal 1999 sconta una pena all’ergastolo nell’isola di Imrali nel Mar di Marmara, a marzo aveva annunciato uno storico cessate il fuoco, poi tramutatosi in un ritiro di migliaia di combattenti del Pkk dalle zone curde della Turchia a quelle dell’Iraq settentrionale. In cambio i curdi dovevano ottenere maggiori diritti costituzionali, la cancellazione di alcune pratiche e leggi repressive e un miglioramento delle condizioni di carcerazione dello stesso Ocalan, ma l’esecutivo di Ankara a mesi di distanza non ha compiuto nessun passo, anzi.
Giù nei giorni scorsi Sabri Ok, uno dei portavoce della comunità curda, aveva avvertito Erdogan che se entro il 15 ottobre non fosse partito l’iter di approvazione di una nuova legislazione più tollerante e garantista nei confronti dei 15 milioni di curdi della Turchia, la tregua sarebbe stata sospesa e guerriglia sarebbe ripresa. Ma di fronte all’inerzia di Ankara – che sta ulteriormente militarizzando il Kurdistan turco viste anche le enormi difficoltà dei suoi alleati islamisti in Siria – l’ultimatum del Partito dei lavoratori è stato anticipato.
Lo stesso leader curdo incarcerato, Abdullah Ocalan, si sarebbe detto pronto ad abbandonare il processo di pace avviato con il governo, aveva rivelato pochi giorni fa sua sorella Fatma, che ha parlato ai giornalisti dopo una visita alla prigione di ‘Apo’ sull’isola di Imrali. Ocalan avrebbe detto alla sorella e allo zio Süleyman Arslan che “abbandonerà se il processo di pace prosegue così” e che “si farà da parte, come semplice spettatore”. Di recente il governo per bocca del vicepremier Bulent Arinc ha respinto “legislazione giudiziaria alla mano” la richiesta di Ocalan di tenere una conferenza stampa per spiegare al popolo curdo e a quello turco il contenuto della proposta di pace del Pkk. Il leader curdo voleva sollecitare pubblicamente il governo ad avviare la fase due del processo di pace iniziato a marzo, ha spiegato in un comunicato il Partito per la Pace e la Democrazia (BDP), ma il governo non glie lo ha consentito. Nei giorni scorsi gli avvocati di Ocalan avevano chiesto che il leader della causa curda possa avere un nuovo processo dopo le modifiche alla legislazione penale turca introdotte negli ultimi mesi dal parlamento di Ankara. Ma è assai improbabile che il regime turco accetti di smentire se stesso e tornare sulle proprie decisioni. Soprattutto ora che la strategia di destabilizzazione di Ankara in Siria si sta rivelando fallimentare: le truppe fedeli ad Assad stanno riprendendo terreno a scapito delle milizie sunnite e jihadiste sostenute dalla Turchia; e il Partito dell’Unità Democratica e le Unità di Autodifesa Popolare potrebbero dichiarare l’autonomia del nord della Siria, fornendo una importante sponda politica e logistica alla guerriglia curda del Pkk.
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