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I terrorismi che inquinano l’Egitto

Terrorismo è lo spettro agitato in queste ore dentro e fuori la nazione egiziana. Ne parla il generale Al-Sisi dicendo che la “pulizia politica” finora praticata, oltre mille morti in tre giorni secondo  cifre al ribasso, serve a prevenire il peggio. Lo sostengono anche gli intellettuali pro-golpe, un esempio è lo scrittore Khaled Al-Khamissi (autore di successo con Taxi) per il quale il repulisti dei militari fa bene al Paese.

Terroristi sono definiti i devastatori d’una cinquantina di chiese copte e musei a Minya e in altri luoghi, ma si potrebbe parlare di fondamentalisti islamici e baltagheyah. Non c’è cenno di “terrorismo” nelle valutazioni che un’ormai allarmata Comunità internazionale dà dei massacri indiscriminati compiuti da poliziotti e militari. Si ventilano sanzioni che fanno sorridere il governo tecnico del Cairo. L’esecutivo di El-Beblawi sa che si tratta di un gioco delle parti, sa che i poteri forti, fra cui spiccano le lobbies israeliane orientatrici della politica estera statunitense non solo in Medio
Oriente, hanno già offerto il benestare al terrorismo di Stato. In sintonìa coi politici d’Israele, in prima fila il già laburista-terrorista Barak ha ricordato che l’esercito egiziano è una pedina fondamentale nel contenimento dell’opposizione alla propria occupazione dei Territori Palestinesi.

Nel Sinai, spina nel fianco dello status quo degli accordi di Camp David, è ricomparsa un’azione terrorista o jihadista; dura, violenta che fa 25 morti fra i militari egiziani in un villaggio non distante dal valico di Rafah sulla Striscia di Gaza. Se l’attacco è frutto dei gruppi jihadisti che si muovono fra deserto e carovane beduine lo sapremo presto; com’è possibile pensare a una crescente presenza qaedista nella zona, e nel Paese, che lo scontro aperto del golpe sanguinario va inesorabilmente a nutrire. Non basterà la semiretromarcia con cui Al-Sisi non procede alla messa fuorilegge della Fratellanza come aveva ventilato, e afferma che in Egitto “c’è posto per tutti”.

I militanti della Confraternita trovano da giorni posto negli obitori, nelle galere dove vengono deportati e uccisi come nella migliore tradizione del militarismo criminale e assassino. Il caso dei 36 o 38 (la mattanza tratta gli individui come numeri) attivisti
deportati dalla Moschea assediata di Al-Fath al carcere Abu Zaabal di cui il Ministero dell’Interno non può negare la morte e farfuglia due versioni: uccisione a seguito di un loro sequestro di un agente oppure intossicazione da gas per una tentata evasione, mostra accanto all’orrore l’intento abominevole di quella parte d’Egitto che scanna a
freddo i suoi fratelli.

Costoro potranno pure avere la maiuscola, sinonimo per gli avversari d’intolleranza e desiderio d’imporre la Shari’a (nei mesi del governo islamico in verità più presunta che applicata) però l’inasprimento crescente, aprioristico, fanatico fra le parti diventa il veleno che inquina la terra d’Egitto. Il tanto sangue versato porta nel profondo
questo veleno diffuso a piene mani anche da coloro che hanno il delicato compito di dirigere e orientare: ceto politico e mass media. L’esasperazione con cui emittenti (OnTv, Al Qaira Al Youm e altre) hanno ripetuto per mesi il mantra che Mursi e Qandil puntassero subdolamente a creare un califfato, idea ventilata magari da qualche canale salafita, è un falso che non distingue le varie anime dell’Islam politico. Così come parlare della Brotherhood come di un movimento rimasto fermo alle teorie del suo leader più intransigente (Sayyd Qutb) peraltro condannato all’impiccagione da Nasser.

La radicalizzazione dello scontro potrebbe rilanciare all’interno dell’oggettivamente
moderata Fratellanza posizioni estreme, per quanto quest’ultime allignino altrove. Come mostra da anni il wahabbismo cullato dai potenti sunniti del Golfo che non amano la Confraternita e guardano all’Egitto coi medesimi intenti dell’alleato statunitense. 
    

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