Qualche mese fa, quando il centrodestra aveva vinto le elezioni politiche nella piccola ma simpatica Islanda, media e commentatori si erano stupiti, meravigliati. Com’è possibile – scrissero in molti – che un paese rivoluzionario come l’Islanda, che ha evitato la bancarotta scegliendo di bloccare i pagamenti del debito contratto con le banche straniere, che ha preso a ceffoni il presidente della propria Banca Centrale, che ha riscritto la costituzione via web, abbia punito le sinistre mandando a casa una energica donna premier?
E’ proprio in quanto popolo ‘rivoluzionario’, ma anche assai pragmatico, che gli islandesi hanno scelto di mandare a casa il governo di centrosinistra. Che insisteva su un argomento che agli abitanti della fredda isola non va proprio a genio: l’adesione all’Unione Europea. Perché mai dovrebbero entrare in una confederazione di stati governata dalla Banca Centrale Tedesca dopo essersi salvati, per un soffio, dalle mire delle banche britanniche e olandesi?
I partito di centrodestra basarono la propria campagna elettorale su pochi punti, in particolare su uno: lo stop all’adesione del paese all’Unione Europea e alle sue stringenti regole di austerity.
E’ di questi giorni la notizia che il team dei negoziatori islandesi che stavano curando il processo di avvicinamento di Reykjavik a Bruxelles è stato sciolto dall’esecutivo formato ad aprile dal Partito Progressista e dal Partito dell’Indipendenza. L’annuncio é stato fatto in Parlamento da Bragi Sveinsson, ministro degli Esteri di Reykjavik. I negoziati si erano arenati su diverse questioni: l’isola avrebbe dovuto fare delle concessioni economiche a Bruxelles, cambiare le proprie politiche in tema di pesca e agricoltura, ma anche la denuncia pendente alla Corte di giustizia dell’Ue per la bancarotta del 2008 ha avuto il suo peso. Quell’anno alcuni istituti di credito locali collassarono e la Glitnir Bank, la maggiore banca del Paese, venne nazionalizzata; la moneta islandese crollò del 37% in un anno. Mandando in fumo miliardi di euro investiti da istituti di credito britannici e olandesi. Che ora pretendono di essere risarciti, cosa che Reykjavik vuole fare con i tempi e i modi dovuti, per non mettere di nuovo in ginocchio l’economia del paese già stroncata dalla crisi di qualche anno fa.
“Il governo è unanime su questo dossier. L’iter è stato sospeso, nulla è stato chiuso, noi vogliamo migliorare la nostra comunicazione e rafforzare i legami con l’Ue senza però aderire”, ha spiegato Sveinsson. Che ora potrà vantarsi davanti agli islandesi di aver mantenuto le promesse fatte in campagna elettorale, il che di questi tempi è una gran novità. I socialdemocratici e la sinistra verde continuano ad insistere da parte loro che non c’è futuro per l’Islanda fuori dall’Ue, ma pare proprio che gli islandesi non la pensino così.
A Maggio il nuovo governo di centrodestra aveva annunciato un primo stop ai negoziati con Bruxelles, rimandando il tutto ad un referendum che permetta ai cittadini del paese, entro i prossimi quattro anni, di pronunciarsi sulla questione. Uno strumento di partecipazione popolare sistematicamente proibito a quei paesi che oggi soffrono sotto il tallone di Bruxelles e Francoforte…
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