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Il Giappone vuole esportare armi

Il piano che consentirà al Giappone di superare il bando sull’export di armi e di tecnologia bellica è stato definito dal partito di maggioranza, il liberal-democratico, ed è stato inviato ai suoi parlamentari e a quelli del suo alleato Nuova Komeito. A comunicarlo fonti dello stesso partito, di cui fa parte anche il premier Shinzo Abe, che hanno segnalato come l’obiettivo sia di ottenere l’approvazione parlamentare entro la fine di marzo. Il provvedimento segnerebbe uno strappo consistente con la tradizionale politica “pacifista” del paese iscritta nell’articolo 9 della sua costituzione e imposta al Giappone dagli Stati Uniti dopo la tragica sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale.

Il bando alla vendita di armi giapponesi all’estero è effettivo dal 1967, da quando Tokyo si impegnò a seguire gli Stati Uniti nel blocco dell’export bellico a paesi comunisti o comunque considerati ostili. Un provvedimento bene accolto allora dall’opinione pubblica giapponese, ma che poi ha costretto il paese a mettersi ai margini di operazioni di peacekeeping, oltre tutto frenate dall’impedimento costituzionale a qualunque partecipazione militare fuori dai confini nipponici.
La parziale apertura, nel 2011, alla collaborazione militare con diversi paesi ha aperto la strada a una revisione del ruolo militare del paese e della sua sofisticata industria bellica.

Ufficialmente, le nuove regole proposte vengono giustificate con la necessità di fornire armamenti a paesi che si trovino presso importanti rotte marittime in modo da metterli in grado di contrastare efficacemente azioni piratesche e contribuire così anche alla sicurezza energetica del Giappone.

Primo paese destinatario dell’export bellico potrebbe essere l’Indonesia con cui da tempo sono in corso trattative, ma anche le Filippine nel cui caso, però la fornitura di armi potrebbe essere interpretata da Pechino come un’azione ostile dati i rapporti tesi tra la Repubblica popolare cinese e Manila sul controllo di tratti di mare rivendicati da Pechino al largo dell’arcipelago filippino, dove gli Stati Uniti hanno aumentato negli ultimi anni il proprio spiegamento militare proprio in funzione anticinese.

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