DIYARBAKIR – C’è una via del dolore che incrocia quella d’una giustizia tuttora sconosciuta alle Madri della Pace, una comunità di donne unite dalla sorte di mariti, figli, figlie finiti martiri nella comune lotta identitaria. Oppure murati nelle prigioni con condanne anche secolari per aver applicato quell’autodifesa d’un territorio dove le proprie famiglie vivevano da generazioni. Racconta Halise, una vecchina senza tempo che potrebbe avere ottanta o cento primavere “Vivevo in un villaggio nella zona di Haqqari, una mattina arrivò l’esercito turco. Ci fecero uscire di casa, non volevano che prendessimo nulla e bruciarono tutto. Ora vivo vicino ad Amed ma non mi abituo a stare in città e poi non ci sono i miei figli. Uno condannato a trentasei anni, ne ha scontati sedici, l’altro a venti”. La guerra feroce fra questa popolazione e lo stato turco, all’epoca fortemente kemalista, ha attraversato tutti gli anni Novanta, ma è proseguita durante l’epoca erdoğaniana. Esecuzioni reciproche in imboscate: partigiani kurdi da una parte, militari e agenti del Mıt dall’altra, oltre ai morti in scontri aperti e l’odissea dei civili.
Con la meticolosa pratica della distruzione e dello spopolamento di villaggi attraverso la deportazione di quattro milioni di persone in varie zone della Turchia. Una storia nascosta per anni e rigettata dalla politica ufficiale che accusa il PKK d’essere l’unico responsabile di quelle distruzioni. Così l’illegalità è diventata real politik fra il disinteresse della comunità internazionale che nelle vicende geopolitiche applica sempre pesi e misure differenti. Nei recenti anni del dialogo Öcalan, con una lettera al governo, ha chiesto il ritorno ai luoghi d’origine dei deportati, ma la risposta non è mai giunta. Intanto sul tema da tempo operano associazioni come Goç-der che del diritto al recupero della terra ha fatto il suo impegno primario. Racconta Vechi Aydogan, uno degli animatori del gruppo “Oltre a ricostruire una mappa dei luoghi d’origine e di deportazione della nostra gente, cerchiamo d’investire la politica per restituire quanto tolto. Dovrebbe scomparire l’occupazione militare tuttora praticata attorno ai villaggi, i cui terreni spesso sono stati minati per evitare reinsediamenti. L’Unione Europea che tanto si è spesa per altre minoranze (non lo dice ma pensa sicuramente al Kosovo, ndr) potrebbe aiutarci. Invece tace”.
“Le pressioni dello stato turco sono pesanti, anche l’attuale esecutivo aperto al dialogo con Öcalan punta ad aggirare le responsabilità. Al massimo cerca accordi diretti con le famiglie dei profughi accogliendone i ricorsi (su 263.00 ne sono stati accettati 150.000, ndr). Alla fine arriva un risarcimento simbolico e offensivo: 4000 euro per ogni casa danneggiata. Così s’aggira il reale nodo della questione che è politico, perché ancora una volta il nostro popolo subisce un doppio scippo sociale e identitario”. Aggiunge Fatma Esmer, l’altra attivista che segue le traversie delle famiglie “Donne e bambini hanno vissuto i traumi maggiori, i vecchi ne hanno viste tante, gli uomini adulti combattevano o migravano per dare sostentamento alla famiglia. Queste ferite dell’anima non si cancellano facilmente”. Sulla strada dei lutti compaiono buchi neri addirittura più bui. Quello dei massacri coi cadaveri finiti in fosse comuni è una pagina criminale con la quale i vertici della politica turca non hanno fatto e non vogliono fare i conti. Come per l’eccidio degli armeni. Certo quando accade, s’è verificato tempo addietro in questa zona, che dal terreno agricolo affiorano prima un femore poi dieci tibie e altre ossa, l’imbarazzo delle autorità sale alle stelle.
Eppure non si forma alcuna commissione Onu per capire di quale massacro s’è trattato. Le testimonianze dei familiari sono considerate di parte. Si è mossa una struttura che aderisce alla rete delle associazione per i diritti umani: Insan Haklari Derneği che con l’avvocato Sendar Gelebi dichiara: “Dopo un lavoro documentario durato anni e basato principalmente su testimonianze, perché immagini e filmati sono difficili da riprodurre in un territorio sequestrato dall’autorità militare, il Tribunale dell’Aja ha riconosciuto le colpe degli apparati repressivi turchi e ha emesso sentenze che, però, restano sulla carta. Non condannano nessun ufficiale o soldato sia perché i vertici di quelle Forze Armate sono stati decapitati dalle inchieste su Ergenekon, sia perché la scorciatoia scelta dallo stato, e in tanti casi accettata dalle famiglie che temevano ostracismi lavorativi e sociali, ha chiuso il percorso attraverso un rimborso misero, ma accettato”. Così è. Eppure l’oblio forzato non produce automaticamente pacificazione. La pace armata si legge sui volti pur gioiosi dei giovani danzanti dietro musiche e canti che parlano dell’Öcalan combattente e prigioniero. Si vede nelle keffie calate sui volti che esprimono la disponibilità a riprendere ogni tipo di lotta.
Si ritrova nei comizi d’un parlamentare navigato come Türk che nei programmi futuri non dimentica le trascorse battaglie di martiri, combattenti e attivisti. I nodi irrisolti sono vicini anche al luogo dell’atteso, e nella scorsa settimana festeggiatissimo, Newroz al quale i tanti Öcalan ancora reclusi non hanno potuto partecipare. Galere: ogni città kurda riceve questa piaga. La solare Diyarbakır veniva ferita dal modello ‘E-type’ dove minori e bambini soffrivano in celle di tre metri. Tuttora i detenuti subiscono torture e continui trasferimenti che li fiaccano, come fiaccano i familiari costretti a veri tour de force se vogliono fargli visita. Aggiunge Gelebi “Anche nei casi meno gravi senza l’accusa di omicidio, le condizioni carcerarie sono drammatiche perché la legge vigente marchia gli attivisti come terroristi. Negli ultimi sei mesi i reclusi hanno subìto trasferimenti anche di mille chilometri, possono usufruire di cinque minuti mensili di telefonate e di un’ora e mezza di visita settimanale, di solito incompiuta per le distanze e i costi che i parenti dovrebbero sostenere. Abbiamo 600 detenuti malati gravissimi, 200 sono anziani, che in assenza di cure adeguate rischiano la vita. I rapporti di denuncia spediti al ministero di Giustizia non hanno ricevuto risposta”.
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