Ritardato, dopo l’attacco talebano del marzo scorso ad alcuni strumenti di calcolo della Commissione elettorale ora sostituiti, il ballottaggio delle presidenziali afghane slitta dal 28 maggio al 14 giugno. L’attenzione è tutta concentrata sulla rete delle alleanze, palesi e occulte, attuate dai candidati Abdullah (45% al primo turno) e Ghani (32%). All’interno delle quali la presenza di noti signori della guerra può produrre agli sfidanti fortune e disgrazie. A spostare ulteriormente il peso del voto verso Abdullah è il terzo incomodo del primo turno, quel Rassoul che porta come patrimonio un 11% di elettorato capace di determinare l’esito finale. Rassoul aveva ricevuto l’appoggio del presidente uscente che gli aveva sacrificato, facendolo ritirare, l’ennesimo fratello lanciato in politica (Qayyum). Ora sostiene il dottor Abdullah, che si fa forte di due potenti warlords come Sherzai e Hekmatyar. Sherzai, che era fra gli undici candidati al nastro di partenza, ha riconvertito l’uso del kalashnikov verso questioni finanziarie prima che di politica tribale. Le sue aree d’influenza sono Khandahar e Nangarhar e si vanta d’essere un pashtun. E’ ben visto dall’amministrazione Obama, e con 10 milioni di dollari è stato un finanziatore estero della campagna dell’attuale inquilino della Casa Bianca.
A fianco di Abdullah c’è l’Hezb-i Islami di Hekmatyar, come ha potuto constatare l’attivista di Hambastagi Selay Ghaffar che la scorsa settimana ne ha affrontato due ceffi in una tavola rotonda trasmessa da una tivù locale. Anche l’altro fondamentalista Sayyaf, dell’organizzazione islamica afghana – 7% di preferenze – ha orientato l’appoggio su Abdullah, che magari lo ripagherà sostenendo uno dei cavalli di battaglia dell’ormai anziano mujaheddin: l’amnistia verso questi combattenti, trasformatisi da resistenti anti occupazione sovietica a oppressori e assassini della propria popolazione. L’estesa e composita alleanza dovrà impegnare il beneficiario Abdullah in un’articolata diplomazia delle concessioni, ma le tattiche per ora sembrano dargli ragione. Più coesa doveva essere la componente tajika e uzbeka che parteggia per Ghani attraverso il suo guerriero-sponsor Rashid Dostum, colui che più d’ogni altro conserva un’efficiente macchina paramilitare camuffata da struttura di partito. In effetti Jombesh-i Melli ye Islami nasce come gruppo di fuoco a difesa, inizialmente delle istallazioni di gas nell’area Jawzjan, quindi dello stesso partito impegnato, come altri, nella violentissima guerra civile che fra il 1992 e il ’96 sparse il sangue di 100.000 afghani, donne e bambini compresi.
Invece una fresca indagine sul voto, realizzata da un network di ricerca nelle zone tajike e uzbeke per eccellenza, vede cospicue crepe nell’assenso di quelle genti all’uomo che le controlla da un ventennio, e coi defunti Massoud e Rabbani costituì il mito dei mujaheddin afghani. Da quel che il voto mostra il rude e crudele Dostum non ammalia e intimorisce più i suoi che gli voltano le spalle in province come Samangan, Balkh, Konduz e nell’alluvionata Badakhshan, dove Abdullah raccoglie più preferenze di Ghani. Se tutte le località ad alta concentrazione tajika e uzbeka avessero fatto come Takhar, Abdullah (lì al 50.3%) sarebbe stato eletto presidente al primo turno. Ciò è accaduto anche per gli ampi dissapori, trasformati in conflitto interno, fra la componente militarista del Jombesh, strettamente fedele al suo signore della guerra, e un’ala giovanile riformista che, chiedendo il ricambio d’una leadership intermedia va contestando anche la cariatidea presenza di Dostum. Questi per alcuni anni era riparato nell’area turkmena – si disse anche in Turchia – e controllava dall’estero le vicende del partito. Volendo contrastare il Palazzo, con cui i rapporti s’erano incrinati, sostenne il lancio d’un Fronte nazionale col fratello di Massoud e Mohaqqiq, un patto non durato a lungo e contrastato dentro Jombesh sempre dai riformisti.
Due di loro: Jamaher Anwari e Wahidullah Shahrani, entrambi con esperienza politica istituzionale, sono impegnati nella trasformazione del gruppo dirigente perorando la causa di nuove leve formate culturalmente e amministrativamente in Turchia. Costoro dovrebbero trovare spazio al posto di vecchi scagnozzi del capo militare. Il mancato accordo proietta un pericolo già visto fra le fila del partito: la scissione, come quella operata dal manipolo denominato ‘Riforma e partecipazione’. Saranno stati anche quest’ultimi a convincere famiglie uzbeke a dirottare altrove il voto, visto che dichiarano che la comunità ha il diritto di scegliere liberamente il candidato, fuori da schemi e tradizionali steccati. Ghani non entra nella diatriba interna al partito che non gli appartiene, continua a fidarsi del generale che risulta uno dei cinque più potenti e carismatici uomini pubblici della nazione. Eppure il tetragono di cento battaglie in questo frangente appare vulnerabile e rischia di risultare da freno più che da volàno per il suo candidato-presidente. Sulle insoddisfacenti percentuali uzbeke e tajike pesa il sospetto di vicende denunciate dallo stesso Ghani: una presenza nei seggi di scrutatori non locali e l’ostracismo verso i suoi osservatori delle urne. Ma chi sa scuote la testa: il vero male che mina il controllo del voto più che gli intrallazzi di parte sono i contrasti intestini sopra accennati.
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