Fra la denuncia dei media turchi del rapimento di giovani kurdi operata settimane or sono dal Pkk, la protesta delle madri dei ragazzini contro un’azione considerata lesiva della comunità stessa, la smentita del gruppo sulla responsabilità dell’operazione, il silenzio dell’Esecutivo, le accuse rivoltegli dall’opposizione repubblicana la tensione è tornata a salire nel sud-est turco. L’esercito di Ankara è presente in forze nell’area, le armi della guerriglia, che dovevano sparire dai territori e che tutti sapevano consegnate solo parzialmente, sono tornate a sparare e alcuni militari, ma anche dei dimostranti, restano feriti nei durissimi scontri. Motivo scatenante i posti di blocco creati sulla superstrada fra Diyarbakır e Bingöl da centinaia di manifestanti che protestano per la costruzione dell’ennesima caserma nelle loro zone. La popolazione kurda vuole preservare il territorio, dove vige la propria autonomia amministrativa, dall’edificazione di nuove caserme ma lo Stato non ammette intralci e reprime. Contro i blocchi stradali e l’insicurezza regionale s’è scagliato il leader del partito repubblicano Kılıçdaroğlu, pronto ad accusare Erdoğan di non saper garantire la sovranità dell’intero territorio nazionale e di tener bordone ai kurdi per ragioni di convenienza, visto che è in ballo la sua scalata alla presidenza della Repubblica. Una delle voci più insistenti batte sul tasto del possibile aiuto all’agognato presidenzialismo che il premier potrebbe ottenere con l’appoggio dei deputati del Bdp-Hdp.
Ciò che crea molto imbarazzo nella famiglia kurda è l’aperta ribellione compiuta dalle madri dei giovanissimi scomparsi, si dice rapiti nell’area di Lice, luogo simbolo della guerriglia. Dopo iniziali malumori i parenti dei ragazzi sono da giorni sotto il municipio di Diyarbakır e reclamano a gran voce che politici, sindaci, rappresentanti delle istituzioni, tutti eletti sotto l’albero del partito filo kurdo della Pace e della Democrazia intercedano per la liberazione degli scomparsi. In un comunicato il Pkk ha smentito rapimenti e responsabilità in questo che diventa un vero giallo. Anche perché in zona si vocifera che quelle donne siano state foraggiate economicamente dalle strutture governative per gettare discredito su guerriglieri e partiti kurdi. Sulla questione, però, giunge la voce molto critica d’un noto intellettuale kurdo İbrahim Güçlü, che ha acquisito negli anni autorevolezza per le persecuzioni ricevute dallo Stato kemalista. Güçlü ha attaccato sia il partito guida, l’Akp, responsabile del mancato riconoscimento dei diritti della copiosa minoranza etnica, anche in questi anni di trattative aperte ma soggette a tentennamenti e passi indietro. E se l’è presa coi metodi violenti del Pkk, che nell’oscura vicenda dei sequestri, reali o presunti, vuole ribadire l’unicità del proprio ruolo al quale la cittadinanza deve sottomettersi. In un discorso critico e tagliente riportato dal quotidiano gülenista Zaman l’intellettuale giunge a dire che “mentre la popolazione vede i suoi figli rapiti e forzati a combattere, i figli dei quadri del gruppo guerrigliero frequentano collegi in Turchia e all’estero”. Cruda realtà o fango mediatico? Si attendono repliche o smentite dagli interessati.
In tanta verve polemica Abdullah Öcalan continua a conservare una calma consolidata dal distacco forzato dal mondo. E un notevole ottimismo, nonostante gli alti bassi dei colloqui che lo vedono protagonista da tre anni. Tramite il deputato Sırrı Süreyya Önder, suo periodico visitatore nel supercarcere di İmralı, ha fatto sapere che i colloqui delle prossime due-tre settimane assumono una veste importante, definita una ‘nuova fase’. Ufficializzare e calendarizzare questioni come: l’antidemocraticità delle leggi antiterroristiche, il tema dei prigionieri malati, oltre che una stabilizzazione del processo di pace rappresentano per il leader kurdo una tappa decisiva. Gli incontri dovranno diventare sempre più trasparenti ed essere visionati da osservatori neutrali. Önder ha riportato integralmente le parole di Apo: “Il governo si è nascosto dietro necessità elettorali mancando di coraggio nell’affrontare la questione, io ho sottolineato che il processo di pace può essere garantito solo dando un valore legale e politico alla trattativa”. Öcalan sostiene che dopo tanti ritardi entrambe le parti devono evitare d’inseguire eccessi e provocazioni concettuali pronte a mettere in difficoltà l’interlocutore e minare l’attuazione di comportamenti distensivi. A suo dire è necessario preparare proposte oneste e praticabili e combattere la paranoia della divisione del Paese agitata dal kemalismo più oltransista.
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Gianni Sartori
invio questo contributo (la “postfazione” al mio libro sui Curdi) a commento di quanto letto nell’interessante articolo. Un conferma di quanto possa essere contraddittoria e talvolta anche non priva di ombra una causa giusta come quella dell’autodeterminazione dei popoli. Ciao
GS
COSA RESTA DELL’AUTODETERMINAZIONE DEI POPOLI? (Gianni Sartori))
In questi articoli e interviste ho voluto mantenere inalterati testo e cronologia, senza rielaborare con “il senno di poi” quanto avevo scritto, mosso in genere dall’indignazione, sulle vicende del popolo curdo. Alcune ipotesi sono state confermate, altre si sono perse per strada (ma forse solo temporaneamente), altre ancora si sono manifestate in maniera inaspettata. Sia nel dramma dei profughi curdi abbandonati dall’Onu in Iraq (dove rischiavano di venire sterminati) che nella paradossale vicenda del boicottaggio contro la Turban-Italia (ero io l’autore del volantino incriminato, ovviamente), la tensione è quella vissuta in quel preciso momento.
Come si può dedurre da questa “postfazione”, coltivo qualche perplessità sugli sbocchi assunti da alcune lotte di liberazione in tempi recenti (talvolta strumentalizzate dal sistema industriale-militare – l’imperialismo – o da qualche potenza regionale), ma non per questo rinuncio a schierarmi a fianco degli oppressi e contro l’oppressione. Altri verranno e sapranno comprendere, interpretare con maggiore chiarezza gli avvenimenti, non sempre di facile lettura, degli ultimi decenni. Da parte mia, metto a disposizione questo omaggio alla dignità e fierezza di un popolo coraggioso, mai domato, mai addomesticato, mai rassegnato.
Per i colonizzatori il “divide et impera” non è una novità. Viene praticato con successo almeno dai tempi di Giulio Cesare. La strumentalizzazione, operata dal regime turco, di altre minoranze contro gli armeni (durante la deportazione e il genocidio del 1915) potrebbe aver fornito un protocollo per l’utilizzo da parte della Francia, e in seguito degli Usa, di alcune minoranze indocinesi contro la resistenza vietnamita. Senza ovviamente dimenticare che a combattere in Indocina, Parigi aveva inviato soprattutto soldati originari dall’Africa. Così come l’Italia fascista aveva fatto ampio uso (oltre che dei gas) di ascari africani contro altri africani: eritrei contro la resistenza libica e truppe libiche nel Corno d’Africa. Negli anni ottanta, Londra inviò i gurka nepalesi alle Malvinas. A Belfast e Derry, nell’Irlanda del Nord, frange di proletariato dei quartieri protestanti, manipolate dai servizi segreti inglesi, si resero responsabili di omicidi settari (non di rado indiscriminati, indipendentemente dalla militanza delle vittime nel movimento repubblicano) contro gli abitanti, cattolici, di Falls Road e Rossville Flats. Da sottolineare che entrambi (nativi irlandesi e discendenti dai coloni immigrati dalla Scozia) erano di origine celtica. Un elemento in più per sottolineare l’artificiosità e la strumentalità della divisione su base religiosa delle due comunità, reciprocamente ostili. Sciiti e sunniti, a fasi alterne, vengono strumentalizzati in Medio oriente e lo stesso avviene con le nazioni senza stato e con le minoranze etniche: curdi, beluci, turcomanni, alimentando – e armando – le loro aspirazioni ad una maggiore autonomia o all’indipendenza.
Per conto di chi agivano i miliziani sciiti di Amal (“Speranza”) che nel 1986 assediavano i campi palestinesi, ormai indifesi e ridotti alla fame dopo l’allontanamento dell’Olp dal Libano? E in base a quali calcoli gli Stati Uniti hanno integrato nell’esercito e nella polizia irachena formazioni come il gruppo Sciri e Al-Da’wa, notoriamente filoiraniani e responsabili di violazioni dei diritti umani? Contraddizione nella contraddizione: contemporaneamente Washington starebbe utilizzando in funzione anti-Teheran gruppi di indipendentisti beluci (sunniti) legati ad Al Qaeda. Chi, se non i servizi segreti turchi, può aver organizzato nel 2007 gli assalti – ufficialmente opera di rom – contro le baracche dei profughi curdi a Istanbul?
Un caso limite quello dei karen, in perenne fuga tra Birmania e Thailandia, che da qualche tempo verrebbero sostenuti da gruppi neofascisti europei.
Anche le “guerre tra poveri” che stanno insanguinando il subcontinente indiano danno l’impressione di essere in parte manovrate, ma individuarne la vera matrice non è semplice. Nel 2007 alcuni gravi attentati compiuti in occasione di feste nazionali e anniversari dell’India, vennero inizialmente attribuiti ai gruppi islamici. Successivamente emerse la pista dei separatisti del Nord-est (popolazioni bodo e naga). Lo scontro è stato particolarmente duro nell’Assam (dove gran parte della popolazione è induista). Dal 1989 al 1996 la guerriglia dei bodo (in maggioranza cristiani) aveva causato la morte di circa duemila persone. Nel dicembre 1996 un attentato al Brahamaputra Express, mentre attraversava l’Assam, provocò più di trecento morti. Ancora prima delle rivendicazioni, l’atto terroristico venne attribuito ai bodo che due giorni prima avevano fatto saltare un ponte ferroviario. Alcuni osservatori parlarono esplicitamente di “strategia della tensione” e di manipolazioni dei servizi.
Molto probabilmente in alto loco qualcuno pensa che è “sempre meglio che si ammazzino tra di loro”, purché il controllo del territorio e delle risorse rimanga saldamente nelle mani di chi detiene il potere. Si tratti di un esercito di occupazione, di una multinazionale o di criminalità organizzata come nei pogrom di Ponticelli. E naturalmente anche l’oppresso, il diseredato di turno ci metterà “del suo”.
Ormai la strumentalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale, come di quelli autonomistici o identitari, non è più appannaggio esclusivo dei servizi segreti. Le varie potenze planetarie operano alla luce del sole decretando la legittimità o meno delle rivendicazioni. Manuel Castells ha parlato di “indipendenze a geometria variabile” , denunciando come la comunità internazionale si dichiari favorevole all’autodeterminazione di un popolo o difenda l’integrità di un paese “a seconda di chi, del come e del quando”. Ricordava che osseti e abkhazi si erano ribellati contro la Georgia nello stesso periodo in cui i ceceni si sollevavano contro la Russia. Inizialmente gli Usa appoggiarono l’insurrezione cecena, ma tollerarono facilmente la repressione da parte della Georgia. Analogamente nel caso del Kosovo (dove è stata poi costruita un’immensa base statunitense) si è invocato il diritto all’autodeterminazione, mentre per il Tibet non si va oltre qualche protesta simbolica. Quanto agli uiguri, sembra quasi che non esistano come popolo.
“Le posizioni sul diritto all’autodeterminazione – sostiene il sociologo catalano -sono frutto di un cinismo tattico” e l’indipendentismo sarebbe divenuto uno “strumento geopolitico fondamentale in un mondo globalizzato e interdipendente”.
Gli esempi si sprecano. Pensiamo al trattamento riservato ai curdi in Iraq, praticamente autonomi e quasi alleati degli Usa, mentre quelli in territorio turco continuavano ad essere bombardati, imprigionati e torturati da Ankara, storicamente alleato strategico degli Stati Uniti. Cui prodest? Non certo alla nazione curda nel suo insieme. E intanto i curdi dell’Iran (“Partito per una vita libera in Kurdistan”, PJAK, considerato il ramo iraniano del PKK attivo in Turchia), dopo una serie di impiccagioni che l’opinione pubblica mondiale ha ignorato, nel 2010 si sarebbero rassegnati a collaborare anche con il Mossad (lo aveva documentato Le Monde, ma poi le cose sarebbero cambiate).
Nel caso di Timor Est, la popolazione subì per anni un vero e proprio genocidio nell’indifferenza dell’opinione pubblica. Tra le poche eccezioni Noam Chomski e la “Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli” (Lidlip, fondata da Lelio Basso). Solo di fronte al rischio concreto di una dissoluzione dell’Indonesia intervennero le forze internazionali, ripescando l’ex guerrigliero Gusmao, leader del Frente revolucionària de Timor-Leste independente (Fretilin) per farne il presidente. Pare che inizialmente non ne fosse particolarmente entusiasta, dato che aspirava a ritirarsi e darsi all’agricoltura. Paradossale che tra i militari inviati a tutelare il diritto all’autodeterminazione di Timor Est vi fossero esponenti dei corpi scelti dell’antiterrorismo britannico provenienti direttamente da Belfast.
Due situazioni molto simili come l’Irlanda del Nord e il Paese basco, negli ultimi anni sembravano aver imboccato strade antitetiche. Soluzione politica, abbandono della lotta armata da parte di Ira, Inla e delle principali milizie lealiste, liberazione dei prigionieri politici e cogestione del governo locale a Belfast e Derry. Repressione, ancora casi di tortura, tregue effimere, illegalizzazione di partiti (Herri batasuna, Batasuna, Bildu, Sortu…), associazioni ( Jarrai, Haika, Segi, Gestoras pro Amnistia, Askatasuna…) e giornali (Egin, Egunkaria) a Bilbo, Donosti e Gasteiz. Solo nel 2012, con la definitiva rinuncia alle armi di ETA e la possibilità per la “sinistra abertzale” di partecipare alle elezioni (con Sortu), si è riaperta la possibilità di una soluzione politica del conflitto. Ma al momento Arnaldo Otegi e altri esponenti indipendentisti rimangono ancora in galera (come se durante le trattative Blair avesse fatto arrestare Gerry Adams) e per i prigionieri politici baschi (in particolare per gli etarras) la situazione rimane molto difficile.
La mia ipotesi è che negli anni novanta il “grande laboratorio a cielo aperto per la contro-insurrezione” dell’Irlanda del Nord dovesse chiudere in vista della partecipazione britannica alle guerre in Afghanistan-Iraq e del ruolo fondamentale assunto da Londra. Meno convincente la tesi della conversione di Blair al cattolicesimo, anche se non si può mai dire. Quanto agli Usa, Clinton avrebbe agito per conservare il voto dei cittadini statunitensi di origine irlandese che solitamente votano per i Democratici.
E’ ipotizzabile che in Irlanda del Nord la stessa Cia abbia dato una mano per togliere di mezzo qualche capo delle milizia lealiste (filobritanniche) che non aveva compreso la nuova situazione. Ipotesi formulata anche dal compianto Stefano Chiarini. Al contrario, già negli anni novanta Washington inviava agenti della Cia nel Paese basco per coadiuvare l’apparato repressivo.
Il problema di “quale autodeterminazione” si pone soprattutto nel caso di stati nati dalla colonizzazione, dato che le loro frontiere sono state stabilite in base a trattati europei con cui si decideva arbitrariamente il destino delle popolazioni. I poteri globali reali (economici, militari, tecnologici) stabiliscono caso per caso, di volta in volta, se appoggiare una lotta di liberazione, legittimarne la repressione o anche inventarne una di sana pianta. Al limite della farsa l’episodio che ha visto un gruppo di aspiranti golpisti (quasi tutti membri di una loggia massonica) arruolare mercenari per sobillare la rivolta secessionista nel Cabinda, regione angolana ricca di petrolio. Da segnalare per l’uso spregiudicato di due ONLUS (Freedom for Cabinda e Freedom for Cabinda Confederation) create appositamente per ricevere donazioni.
Alcuni casi esemplari, storici, di separatismo a puro uso e consumo di qualche potenza coloniale (come il Katanga di Tshombe nell’ex Congo belga) potrebbero tornare di attualità. Per esempio in Bolivia con Santa Cruz, capoluogo di una regione ricca, abitata prevalentemente da discendenti dei colonizzatori, che ha spinto per l’indipendenza. Chissà? Forse Evo Morales (il presidente boliviano esponente del MAS, Movimento al socialismo) ha rischiato davvero di finire come Lumumba, il presidente progressista del Congo, assassinato nel 1961 dagli sgherri di Tshombe al servizio dell’imperialismo belga.
Forse non è un caso che nel 2008, dopo anni di impegno a fianco dei popoli oppressi, la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip), riconosciuta dall’Onu e dall’Unesco, abbia definitivamente sospeso le sue attività. Fondata da Lelio Basso, la Lidlip è stata per trent’anni portavoce delle minoranze, delle popolazioni perseguitate, dei movimenti di liberazione dal colonialismo, grazie all’impegno di Verena Graf, segretaria generale e rappresentante permanente della Lidlip all’Onu. Ci mancherà.
GS
Qualche notizia sull’autore
Gianni Sartori è nato a Vicenza nel 1951.
Giornalista, ha realizzato articoli, interviste, reportage e servizi fotografici in difesa dei diritti dei popoli e su questioni ambientali. In particolare si è occupato di Irlanda del Nord, Paesi Baschi, Kurdistan, Armenia, Corsica, Paisos Catalans, Sudafrica, Sudan… e in genere di minoranze oppresse (Ogoni, U’wa, Moseten, Tamil, Sinti…).
Ha collaborato con varie testate sia locali (Nuova Vicenza, Corriere vicentino, La Voce dei Berici, Vicenza abc…) che nazionali (Etnie, Umana Avventura, Frigidaire, Liberazione, Narcomafie, A-rivista anarchica, Germinal, Nigrizia, Senza Confini, Azimut…).
Negli anni ottanta, per la Lega italiana per i diritti e la liberazione dei popoli (Fondazione Lelio Basso) ha curato un ampio dossier sulla questione basca. In rappresentanza della stessa Ong nel 1997 ha seguito come osservatore internazionale il processo di Madrid contro gli esponenti della formazione politica basca Herri Batasuna.
Tra i libri pubblicati: “Euskal Herria – Indiani d’Europa” (2004); “Irlanda, tutti i colori del verde sotto un cielo di piombo” (2005); “Catalogna, storia di una Nazione senza Stato” (2007).
Come direttore responsabile ha reso possibile la pubblicazione di varie riviste legate ai movimenti ambientalisti e pacifisti (“La Fucina”, “Unainforma”, il mensile del presidio NoDalMolin…).