La resistenza dell’ex premier Nouri Al Maliki al cappotto preparato da Washington e soci è servita finora veramente a poco.
Dopo gli Stati Uniti, l’Unione Europea, l’Onu, l’Italia e la Francia ieri anche l’Iran e l’Arabia Saudita (che sostiene con armi e soldi i jihadisti di Al Baghdadi) hanno annunciato il proprio sostegno al premier incaricato Abadi e ad un nuovo governo di “riconciliazione nazionale” che includa anche curdi e sunniti. L’intervento di Teheran, finora sponsor principale di Al Maliki e del suo esecutivo, ha messo per ora la parola fine alle aspirazioni dell’ex premier ed ha aperto le porte all’affermazione del vicepresidente del parlamento che ora avrà alcune settimane per formare una coalizione parlamentare più larga di quella che sosteneva il suo predecessore. E quasi a suggellare simbolicamente il cambio della guardia un attentato kamikaze avrebbe colpito la zona dove risiede il nuovo premier Haider Al Abadi, senza però fare vittime. Una nota dell’esecutivo iracheno ha informato stamattina che «l’attentatore suicida si è fatto saltare in aria contro un posto di blocco a sicurezza della casa del primo ministro». Poco dopo però un’autobomba è esplosa nel centro della capitale irachena uccidendo almeno dieci persone.
Nel frattempo i caccia e i droni statunitensi hanno continuato a colpire alcune postazioni dello Stato Islamico nel nord dell’Iraq, anche se sono molti i media e gli analisti che cominciano a dubitare dell’efficacia e dell’effettività dell’impegno di Washington contro i jihadisti, che nel frattempo continuano ad avanzare verso Baghdad e verso la capitale regionale curda Erbil.
Quasi a voler fugare personalmente i dubbi, ieri Barack Obama ha invitato tutti i leader iracheni a «collaborare per la pace», sottolineando che le sue forze armate stanno lavorando con i partner internazionali per portare in salvo migliaia di yazidi appartenenti alla minoranza religiosa assediata dagli jihadisti sul monte Sinjar. Obama ha vantato che gli aerei americani «restano posizionati per colpire le forze terroriste intorno alle montagne, che minacciano la sicurezza di queste famiglie».
Mentre il suo segretario di stato John Kerry annunciava che Washington e l’Australia vogliono portare alle Nazioni Unite la questione della minaccia delle milizie jihadiste straniere che combattono in Siria e in Iraq (quelle stesse che sono cresciute grazie al sostegno e al finanziamento da parte dell’amministrazione Obama in funzione anti siriana e anti sciita) il segretario alla Difesa Chuck Hagel ha annunciato l’aumento della presenza militare statunitense in Iraq. L’arrivo, ieri, di 130 consiglieri militari supplementari in Iraq, nel capoluogo curdo Erbil, ha portato ufficialmente a quasi 500 i militari americani inviati nel paese, formalmente per difendere il personale diplomatico e gli interessi statunitensi e per coordinare le operazioni di sostegno alle popolazioni del nord perseguitate dalle bande fondamentaliste sunnite.
Secondo John Kerry gli Stati Uniti starebbero ora valutando lo sgombero «urgente» di decine di migliaia di yazidi, cristiani e curdi dalle zone dell’Iraq del Nord occupate o minacciate dallo Stato Islamico. A detta dell’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, nelle ultime 72 ore circa 35mila persone sono scappate dalla regione di Sinjar e sono arrivate nella provincia di Dohuk (Kurdistan iracheno) passando per la Siria dove hanno ottenuto il sostegno e la protezione delle milizie popolari curde (Ypg). A Sinjar «manca cibo, acqua e rifugio per decine di migliaia di civili intrappolati, si rischia un genocidio» afferma il portavoce dell’Onu, Adrian Edwards e sono già alcune centinaia le persone assassinate dalle bande jihadiste o morte di sete e di stenti nel tentativo di attraversare il deserto per sfuggire ai persecutori.
I profughi yazidi che si rifugiano oltre il confine siriano raccontano di «caccia all’uomo nei villaggi», «incendi» e «devastazioni» grazie a cui il leader dell’Isis sta realizzando una pulizia etnica nelle regioni del Nord, al fine di impossessarsi del controllo delle due maggiori risorse dell’Iraq: il corso dei grandi fiumi, Tigri ed Eufrate, e i pozzi di petrolio dell’area di Kirkuk.
Ieri la parlamentare curda-yazida Vian Dakhil e un giornalista del New York Times sono rimasti feriti nell’incidente che ha coinvolto un elicottero impegnato nell’evacuazione degli sfollati nel nord del paese. Secondo alcune fonti il velivolo, sovraccarico di aiuti umanitari, sarebbe precipitato mentre secondo altre sarebbe stato raggiunto da un razzo sparato dagli estremisti sunniti; il pilota è morto e la parlamentare, il reporter e il figlio di un dirigente del Partito democratico del Kurdistan (Pdk) sono rimasti feriti e sono stati traferiti in un ospedale di Erbil.
Le tv irachene riportano in queste ore numerose testimonianze su possibili fosse comuni a nord di Tikrit, dove i miliziani dello Stato Islamico avrebbero gettato i corpi di centinaia di militari giustiziati sommariamente durante l’avanzata di giugno verso Mosul.
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