Dopo l’avvio solenne pronunciato mano sul cuore con al fianco lady Michelle, il piano di Obama di caccia all’Isis vede il Segretario di Stato Kerry cucire il puzzle delle adesioni armate mediorientali. Fra le forze alleate arabe che dovrebbero mettere i famosi “scarponi a terra” sul terreno iracheno e forse siriano l’Arabia Saudita è certamente in testa alle petromonarchie del Golfo. Non solo perché rappresenta la nona nazione al mondo per investimenti militari, superando anche altri Paesi industrializzati (Corea del Sud, noi stessi, Australia, Brasile e Canada) ma per una propensione all’armamento tecnologico sotto la spinta, appunto, statunitense. Se i piedi al suolo non bastano per reggere uno scontro senza motivazioni adeguate, come accadde all’esercito di Saddam, i militari sauditi sono sulla carta numerosi (230.000) e ben equipaggiati. Hanno otto brigate meccanizzate, quattro corazzate, tre brigate di artiglieria. Un totale di 1300 carri armati, in gran parte statunitensi (sia i vecchiotti Patton, ma anche i più moderni Abrams, sperimentati nella 1° e 2° guerra del Golfo).
La fanteria è dotata di mezzi da trasporto e combattimento dagli M113 americani e dalla loro evoluzione M2A2 Bradley, agli AMX 10P francesi. E poi artiglierie e mortai, alcuni di provenienza anche cinese. Del resto i tanti miliardi di dollari dedicati da anni alle spese militari devono tornare utili a qualcosa. Dall’aria, fra caccia e mezzi di trasporto, la dinastia saudita riceve un altro cospicuo supporto che la rendono la seconda flotta aerea militare del Medio Oriente dietro a quella di Tel Aviv. I numeri sono sempre ballerini, ma chi ha conteggiato cita un migliaio di mezzi. Forniture, neanche a dirlo, statunitensi (F-15 Strike ed Eagle Strike, elicotteri d’attacco Apache, vari modelli Boeing di trasporto e rifornimento), qualche pezzo britannico (Bae Hawk), comunitario europeo (Airbus) e gli Augusta-Bell italiani. Ben più numeroso l’esercito egiziano, rodato nel bene e nel male nei conflitti contro Israele, anche se questi restano ormai nella memorialistica dei veterani. Negli anni Ottanta contava su 320.000 effettivi, più 110.000 aviatori, numeri mantenuti anche in tempi recenti, epoche in cui Mubarak, e ora Al-Sisi, hanno utilizzato i soldati soprattutto nella repressione interna.
Sulle forniture militari il balletto della scena mondiale ha giocato la sua partita con promesse a suon di miliardi di dollari (dai 2 americani agli 8 del Gulf Cooperation Council) pur di orientare la politica interna del Cairo. Dall’elezione alla presidenza della Repubblica del generale di ferro anche la Russia, nel periodo nasseriano fornitrice dell’apparato bellico egiziano, ha proposto un finanziamento in armi per 4 miliardi di dollari. Il piccolo Qatar, agguerritissimo nella corsa a tecnologie e visibilità utilizzando tutti gli strumenti possibili, dall’ormai seguitissima Al Jazeera ai grandi eventi sportivi (Mondiali di calcio del 2022), ha investito a maggio scorso cifre esorbitanti in armi: 24 miliardi di dollari dotandosi di aerei (Lockeed), missili per batterie aeree di difesa costiera, carri armati Leopard. Conta, però, di un esercito non superiore a 12.000 unità, rivolto più alla difesa del territorio che all’offesa. I “consiglieri” statunitensi non gli faranno mancare sostegni e sceglieranno magari qualche reparto per l’avventura siro-irachena. Così gli ambiziosi Al-Thani potranno vantare presenza e battere cassa nei consessi internazionali.
Ben altri numeri possono fornire nazioni mediorientali con eserciti rodati, ma non sempre motivati. Sia il Libano (279.000 unità), sia l’Iraq (271.000) vantano uomini ben equipaggiati, la cui condizione fa i conti con l’instabilità della propria quotidianità, l’ossessione di conflitti combattuti da familiari e amici per decenni, sempre senza stabilizzazioni durature. La Turchia coi propri 664.000 militari, che salgono a oltre 1 milione coi riservisti, rappresenta una formidabile macchina da guerra, anch’essa in tempi recenti usata nella repressione locale, soprattutto contro guerriglieri e popolazioni kurde. Kerry nel suo viaggio a Oriente ha iniziato proprio dal neo presidente Erdoğan, esponendogli tutti i vantaggi per l’eventuale appoggio al piano Obama. Dalla leadership turca gli statunitensi s’aspettano il via libera per l’utilizzo delle basi Nato con cui colpire i territori in mano ai jihadisti e probabilmente le vestigia millenarie di Raqqa, che dovranno subire quelle distruzioni di patrimoni artistici già visti in Iraq. Una storia che si ripete uguale, fatta d’interventi per decretare i propri vantaggi politici (a novembre gli Usa vivono le elezioni di medio termine), non per salvare vite. Nei mattatoi siriano e iracheno si moriva anche prima dei folli proclami di Al Baghdadi.
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