Un patto di non aggressione è stato firmato a Hajar al-Aswad, quartiere sud di Damasco, tra i miliziani dell’Isis e alcuni gruppi di opposizione moderati e islamisti. Lo rivela l’Osservatorio Siriano per i diritti umani: un vero e proprio cessate il fuoco “fino a che sarà trovata una soluzione finale”. “Promettono di non attaccarsi a vicenda perché considerano il loro principale nemico il regime Nussayri [la setta alawita, di cui fa parte la famiglia Assad]”.
Un colpo duro alla strategia finora disegnata dalla coalizione dei volenterosi guidata dagli Stati Uniti, soprattutto dopo il meeting di Jeddah, in Arabia Saudita, dove Giordania, Turchia, Egitto e i sei regimi del Golfo hanno promesso di partecipare sostenendo attivamente le opposizioni siriane al governo di Damasco. E mentre l’Arabia Saudita si impegna a addestrare i ribelli siriani, sotto la supervisione Usa, Obama resta in attesa dell’ok del Congresso per investire 500 milioni di dollari in un nuovo programma di addestramento e armamento dei gruppi anti-Assad.
Fonti riportano che tra i firmatari del patto di non aggressione ci sarebbero anche gruppi collegati all’Esercito Libero Siriano, braccio armato della Coalizione Nazionale, unico referente ufficiale dell’Occidente in Siria, e il Fronte Rivoluzionario Siriano, altro riferimento statunitense nel paese che più di una volta ha ripetuto di essere interessato a far cadere Assad e non a combattere altri gruppi. L’accordo sarebbe stato mediato dal Fronte al-Nusra, gruppo qaedista che negli ultimi mesi ha subito i duri attacchi dell’Isis a nord e spesso è stato costretto a ritirarsi verso sud.
Un simile fatto rafforza la posizione dell’asse Russia-Iran-Siria, da giorni impegnata ad accusare il fronte anti-Isis di puntare alla caduta di Assad e all’indebolimento dell’influenza iraniana nella regione, piuttosto che a sradicare le milizie di al-Baghdadi dalle zone dichiarate califfato. Dopo il discorso di Obama alla nazione, mercoledì sera, la Russia ha avvertito che un’operazione militare in Siria, senza il consenso di Damasco, sarà considerata un’aggressione in violazione al diritto internazionale. Mosca è tornata a chiedere, come fece un anno fa, quando Obama preparò e poi abbandonò il piano di bombardamento del regime alawita, l’intervento delle Nazioni Unite.
Stesso il discorso dell’Iran: seppure sul campo le forze militari Usa collaborino ufficiosamente con i pasdaran presenti in Iraq, Washington insiste a non voler coinvolgere Teheran nella coalizione anti-Isis. Nelle stesse ore, Damasco tornava a ripetere la necessità di un coordinamento con il governo di Assad, nel caso di raid in Siria: “Dobbiamo e vogliamo essere parte integrante della coalizione globale, perché il terrorismo non è nato oggi in Siria, ma quattro anni fa”, ha detto il consigliere di Assad, Buthaina Shaaban.
A monte sta però l’asse sunnita guidato da Riyadh il cui obiettivo oggi è lo stesso degli anni passati, quando finanziò e creò più o meno direttamente i gruppi estremisti oggi considerati minaccia al mondo: ostacolare l’avanzata iraniana nella regione, spezzare l’asse Damasco-Teheran-Hezbollah e togliere dalle grinfie iraniane il governo di Baghdad.
Una politica che accompagnata a quella divisiva messa in campo dagli Stati Uniti in Iraq durante gli anni dell’occupazione ha prodotto i suoi drammatici frutti: al di là dell’offensiva dell’Isis, l’Iraq è oggi in piena guerra civile. Si moltiplicano gli attentati (una decina quelli compiuti tra giovedì e venerdì nelle città sciite di Karbala e Najaf) e la comunità sunnita finisce per sentirsi ancora più esclusa con l’avanzata delle milizie sciite e dei peshmerga, sostenuti dai bombardamenti statunitensi. In molte aree liberate dall’Isis, oggi a dettare legge non è lo Stato, ma le stesse milizie che spesso impediscono ai civili sunniti di tornare nelle proprie case. Un’altra forma di settarismo che getta tra le braccia dell’Isis sempre più sunniti iracheni. Nena News
Un patto di non aggressione è stato firmato a Hajar al-Aswad, quartiere sud di Damasco, tra i miliziani dell’Isis e alcuni gruppi di opposizione moderati e islamisti. Lo rivela l’Osservatorio Siriano per i diritti umani: un vero e proprio cessate il fuoco “fino a che sarà trovata una soluzione finale”. “Promettono di non attaccarsi a vicenda perché considerano il loro principale nemico il regime Nussayri [la setta alawita, di cui fa parte la famiglia Assad]”.
Un colpo duro alla strategia finora disegnata dalla coalizione dei volenterosi guidata dagli Stati Uniti, soprattutto dopo il meeting di Jeddah, in Arabia Saudita, dove Giordania, Turchia, Egitto e i sei regimi del Golfo hanno promesso di partecipare sostenendo attivamente le opposizioni siriane al governo di Damasco. E mentre l’Arabia Saudita si impegna a addestrare i ribelli siriani, sotto la supervisione Usa, Obama resta in attesa dell’ok del Congresso per investire 500 milioni di dollari in un nuovo programma di addestramento e armamento dei gruppi anti-Assad.
Fonti riportano che tra i firmatari del patto di non aggressione ci sarebbero anche gruppi collegati all’Esercito Libero Siriano, braccio armato della Coalizione Nazionale, unico referente ufficiale dell’Occidente in Siria, e il Fronte Rivoluzionario Siriano, altro riferimento statunitense nel paese che più di una volta ha ripetuto di essere interessato a far cadere Assad e non a combattere altri gruppi. L’accordo sarebbe stato mediato dal Fronte al-Nusra, gruppo qaedista che negli ultimi mesi ha subito i duri attacchi dell’Isis a nord e spesso è stato costretto a ritirarsi verso sud.
Un simile fatto rafforza la posizione dell’asse Russia-Iran-Siria, da giorni impegnata ad accusare il fronte anti-Isis di puntare alla caduta di Assad e all’indebolimento dell’influenza iraniana nella regione, piuttosto che a sradicare le milizie di al-Baghdadi dalle zone dichiarate califfato. Dopo il discorso di Obama alla nazione, mercoledì sera, la Russia ha avvertito che un’operazione militare in Siria, senza il consenso di Damasco, sarà considerata un’aggressione in violazione al diritto internazionale. Mosca è tornata a chiedere, come fece un anno fa, quando Obama preparò e poi abbandonò il piano di bombardamento del regime alawita, l’intervento delle Nazioni Unite.
Stesso il discorso dell’Iran: seppure sul campo le forze militari Usa collaborino ufficiosamente con i pasdaran presenti in Iraq, Washington insiste a non voler coinvolgere Teheran nella coalizione anti-Isis. Nelle stesse ore, Damasco tornava a ripetere la necessità di un coordinamento con il governo di Assad, nel caso di raid in Siria: “Dobbiamo e vogliamo essere parte integrante della coalizione globale, perché il terrorismo non è nato oggi in Siria, ma quattro anni fa”, ha detto il consigliere di Assad, Buthaina Shaaban.
A monte sta però l’asse sunnita guidato da Riyadh il cui obiettivo oggi è lo stesso degli anni passati, quando finanziò e creò più o meno direttamente i gruppi estremisti oggi considerati minaccia al mondo: ostacolare l’avanzata iraniana nella regione, spezzare l’asse Damasco-Teheran-Hezbollah e togliere dalle grinfie iraniane il governo di Baghdad.
Una politica che accompagnata a quella divisiva messa in campo dagli Stati Uniti in Iraq durante gli anni dell’occupazione ha prodotto i suoi drammatici frutti: al di là dell’offensiva dell’Isis, l’Iraq è oggi in piena guerra civile. Si moltiplicano gli attentati (una decina quelli compiuti tra giovedì e venerdì nelle città sciite di Karbala e Najaf) e la comunità sunnita finisce per sentirsi ancora più esclusa con l’avanzata delle milizie sciite e dei peshmerga, sostenuti dai bombardamenti statunitensi. In molte aree liberate dall’Isis, oggi a dettare legge non è lo Stato, ma le stesse milizie che spesso impediscono ai civili sunniti di tornare nelle proprie case. Un’altra forma di settarismo che getta tra le braccia dell’Isis sempre più sunniti iracheni. Nena News
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Un patto di non aggressione è stato firmato a Hajar al-Aswad, quartiere sud di Damasco, tra i miliziani dell’Isis e alcuni gruppi di opposizione moderati e islamisti. Lo rivela l’Osservatorio Siriano per i diritti umani: un vero e proprio cessate il fuoco “fino a che sarà trovata una soluzione finale”. “Promettono di non attaccarsi a vicenda perché considerano il loro principale nemico il regime Nussayri [la setta alawita, di cui fa parte la famiglia Assad]”.
Un colpo duro alla strategia finora disegnata dalla coalizione dei volenterosi guidata dagli Stati Uniti, soprattutto dopo il meeting di Jeddah, in Arabia Saudita, dove Giordania, Turchia, Egitto e i sei regimi del Golfo hanno promesso di partecipare sostenendo attivamente le opposizioni siriane al governo di Damasco. E mentre l’Arabia Saudita si impegna a addestrare i ribelli siriani, sotto la supervisione Usa, Obama resta in attesa dell’ok del Congresso per investire 500 milioni di dollari in un nuovo programma di addestramento e armamento dei gruppi anti-Assad.
Fonti riportano che tra i firmatari del patto di non aggressione ci sarebbero anche gruppi collegati all’Esercito Libero Siriano, braccio armato della Coalizione Nazionale, unico referente ufficiale dell’Occidente in Siria, e il Fronte Rivoluzionario Siriano, altro riferimento statunitense nel paese che più di una volta ha ripetuto di essere interessato a far cadere Assad e non a combattere altri gruppi. L’accordo sarebbe stato mediato dal Fronte al-Nusra, gruppo qaedista che negli ultimi mesi ha subito i duri attacchi dell’Isis a nord e spesso è stato costretto a ritirarsi verso sud.
Un simile fatto rafforza la posizione dell’asse Russia-Iran-Siria, da giorni impegnata ad accusare il fronte anti-Isis di puntare alla caduta di Assad e all’indebolimento dell’influenza iraniana nella regione, piuttosto che a sradicare le milizie di al-Baghdadi dalle zone dichiarate califfato. Dopo il discorso di Obama alla nazione, mercoledì sera, la Russia ha avvertito che un’operazione militare in Siria, senza il consenso di Damasco, sarà considerata un’aggressione in violazione al diritto internazionale. Mosca è tornata a chiedere, come fece un anno fa, quando Obama preparò e poi abbandonò il piano di bombardamento del regime alawita, l’intervento delle Nazioni Unite.
Stesso il discorso dell’Iran: seppure sul campo le forze militari Usa collaborino ufficiosamente con i pasdaran presenti in Iraq, Washington insiste a non voler coinvolgere Teheran nella coalizione anti-Isis. Nelle stesse ore, Damasco tornava a ripetere la necessità di un coordinamento con il governo di Assad, nel caso di raid in Siria: “Dobbiamo e vogliamo essere parte integrante della coalizione globale, perché il terrorismo non è nato oggi in Siria, ma quattro anni fa”, ha detto il consigliere di Assad, Buthaina Shaaban.
A monte sta però l’asse sunnita guidato da Riyadh il cui obiettivo oggi è lo stesso degli anni passati, quando finanziò e creò più o meno direttamente i gruppi estremisti oggi considerati minaccia al mondo: ostacolare l’avanzata iraniana nella regione, spezzare l’asse Damasco-Teheran-Hezbollah e togliere dalle grinfie iraniane il governo di Baghdad.
Una politica che accompagnata a quella divisiva messa in campo dagli Stati Uniti in Iraq durante gli anni dell’occupazione ha prodotto i suoi drammatici frutti: al di là dell’offensiva dell’Isis, l’Iraq è oggi in piena guerra civile. Si moltiplicano gli attentati (una decina quelli compiuti tra giovedì e venerdì nelle città sciite di Karbala e Najaf) e la comunità sunnita finisce per sentirsi ancora più esclusa con l’avanzata delle milizie sciite e dei peshmerga, sostenuti dai bombardamenti statunitensi. In molte aree liberate dall’Isis, oggi a dettare legge non è lo Stato, ma le stesse milizie che spesso impediscono ai civili sunniti di tornare nelle proprie case. Un’altra forma di settarismo che getta tra le braccia dell’Isis sempre più sunniti iracheni. Nena News
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