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In Turchia l’Isis spadroneggia: sequestri e omicidi

Tra i paesi dell’area la Turchia, insieme alle petromonarchie della penisola arabica, è quello che più sostiene i jihadisti del cosiddetto ‘Stato Islamico’. Una complicità denunciata più volte negli ultimi anni, quando la stampa e i governi occidentali chiudevano un occhio in nome del fatto che i miliziani sunniti in fondo rappresentavano un comodo strumento contro il governo di Damasco, gli Hezbollah libanesi o i governanti iracheni percepiti come troppo vicini a Teheran. Una complicità che ha permesso alle bande di Al Baghdadi di utilizzare il territorio turco come rifugio: per vendere il petrolio prodotto nelle aree occupate in Siria e in Iraq; per far curare i propri miliziani feriti; per rifornirli di armi ed equipaggiamenti; addirittura per addestrarli.

Mentre il mondo si interroga ingenuamente – e colpevolmente – sul perché dell’atteggiamento ostile del regime di Ankara nei confronti dell’alleato americano che si ostina a voler combattere i jihadisti dell’Isis ora che sono diventati troppo ingombranti, dalla Turchia arrivano due notizie che per ora i media italiani non hanno affrontato con il dovuto risalto.

La prima notizia riguarda un fallito tentativo di sequestro del comandante di un gruppo ribelle siriano (Thuwar Raqqa, aderente all’ESL) avvenuto in territorio turco, denunciato dal quotidiano britannico Telegraph nei giorni scorsi. Secondo il giornale, che riprende le dichiarazioni del gruppo che ha partecipato alla difesa di Kobane, venerdì scorso Abu Issa e il figlio Ammar, di 20 anni, avevano incontrato alcuni funzionari turchi nella città di Urfa per discutere la possibilità che le milizie dell’opposizione siriana cosiddetta ‘moderata’ possano ricevere addestramento militare in territorio turco.
Al termine della riunione i due uomini sono stati bloccati e fatti scendere dalla loro autovettura da quattro uomini dello Stato Islamico che, a volto scoperto e pesantemente armati, li hanno condotti al confine siriano. Una volta arrivati alla frontiera, però, il contrabbandiere incaricato di portare i due uomini in Siria per consegnarli alle bande di Al Baghdadi ci avrebbe ripensato, ritenendo l’affare troppo pericoloso a causa della militarizzazione del confine e mandando così a monte il sequestro.
Secondo il Telegraph, l’agguato a Issa solleva “ulteriori interrogativi sull’impegno assunto dalla Turchia nella lotta all’Isis”. Anche perché un siriano che vive in Turchia ha raccontato al quotidiano britannico di conoscere i quattro uomini coinvolti nel tentativo di sequestro: “Li vedo condurre una vita agiata a Urfa; mangiano al ristorante e trascorrono il loro tempo nei caffè. Nessuno si preoccupa di loro”.

Anche un altro episodio rivela quanto sia ampia la libertà di movimento per i fondamentalisti sunniti all’interno del territorio turco. L’altro ieri una giornalista trentenne della televisione iraniana Press TV è morta in Turchia e il suo cameraman è rimasto ferito a causa di un incidente stradale bollato però come “sospetto” dalla stessa emittente e dalla famiglia della donna. Serena Shim, con la doppia cittadinanza libanese e statunitense, era stata inviata alla frontiera tra Turchia e Siria per seguire la battaglia in corso a Kobane tra combattenti curdi e jihadisti dello Stato islamico. Madre di due bambini, aveva già lavorato con Press Tv in Libano, Iraq e Ucraina. Stando a quanto riportato dalla stessa Press Tv, Shim stava tornando in albergo dalla città turca di Suruc – località gemella di Kobane sul versante turco del Kurdistan, nella provincia di Urfa – quando la macchina su cui stava viaggiando si è scontrata con un mezzo pesante. “Non si conosce l’identità dell’autista dell’autocarro”, ha sottolineato l’emittente iraniana, ricordando che venerdì scorso la giornalista aveva informato la direzione della Tv di essere stata incredibilmente accusata di attività di spionaggio dall’intelligence turca per il suo lavoro d’inchiesta sulla collaborazione tra il regime di Ankara e i fondamentalisti sunniti.
Che dietro la morte ‘sospetta’ della giornalista ficcanaso ci siano i servizi segreti turchi del Mit o direttamente i jihadisti poco cambia. Come scriveva esplicitamente il Telegraph, “i jihadisti dello Stato islamico operano dentro uno Stato membro della Nato in condizioni di relativa impunità”. Nelle ultime settimane non sono pochi i video postati sui social network che ritraggono miliziani dell’Isis che se ne vanno a spasso armati per le città del sud della Turchia o che mostrano addirittura quella che viene indicata come una fabbrica di armi dello Stato Islamico, localizzata nel distretto di Reyhanlı, nella provincia meridionale di Antiochia. Proprio dove l’11 maggio del 2013 due autobomba esplosero uccidendo decine di abitanti inermi. Il regime di Erdogan accusò della strage prima i servizi segreti siriani e poi addirittura un’organizzazione di estrema sinistra turca, ma apparve subito chiaro che gli autori degli attentati erano proprio i jihadisti che Ankara sosteneva attivamente. 

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