Potrà l’internazionale degli intellettuali (da Chomsky ai nomi più vari della cultura accademica, spettacolare e dello sport) smuovere il mondo per mettere all’angolo l’internazionale jihadista? Il comitato Campaign for a political solution of the Kurdish Question, che lancia anche un appello per la raccolta di firme, propone per sabato 1 novembre una manifestazione contro l’Isis da tenersi in varie piazze del globo. E nonostante le notizie che taluni bombardamenti statunitensi hanno ridato fiato ai combattenti di Pyd e Ypj la situazione della cittadina assediata resta difficile. Nell’ottica della guerriglia islamista la presa del cantone di Kobanê diventa strategica per controllare un centinaio di chilometri di frontiera turca, visto che dall’altra parte del confine l’esercito di Erdoǧan non fa nulla per contrastare le azioni offensive dell’Is. Lo scopo è riunire un’ampia area che va dalla capitale Raqqa ai villaggi che precedono Aleppo. Quest’ultima è tuttora controllata dall’esercito siriano, ma continua a costituire un obiettivo per gli uomini di Al Baghdadi. I quali, dominando quel confine, potranno gestire commerci e contrabbando di petrolio utili al finanziamento del Califfato, e ancor più facilmente aprire varchi ai volontari barbuti che giungono in aereo a Gaziantep.
Una doppia beffa per i kurdi che hanno in quella città un’enorme comunità ma che l’esercito turco non fa muovere in soccorso dei fratelli della Rojava. Pkk incatenato e strade aperte ai jihadisti: la linea adottata fino a questo momento dal presidente-sultano prosegue. La variante dell’ultim’ora, annunciata dal ministro degli esteri Çavușoğlu, è lasciar passare solo i peshmerga che dall’Iraq raggiungerebbero, attraverso il territorio turco, i miliziani delle Unità di protezione del popolo. Di fatto ciò che può far cambiare le sorti dell’assedio di Kobanȇ è l’arrivo in loco di armi pesanti, con o senza i peshmerga. Finora le uniche utilizzate sono state quelle – pesantissime – dei missili nei raid aerei statunitensi che ovviamente hanno inflitto perdite all’Is, alleggerendo la pressione sulla popolazione assediata rimasta comunque sotto tiro. E osservata dalla collina di Mürșitpınar dalle famiglie kurde presenti nel confine turco. Ma né queste né i militanti del Pkk, apertamente considerati nemici dall’establishment governativo, possono muoversi. Anzi hanno subìto nei giorni scorsi repressioni d’ogni genere: dai cannoneggiamenti di località dove si presume si trovino miliziani, alle cariche omicide della polizia per chi manifestava in strada.
Un trattamento in contrasto con quanto è sostenuto da talune testate giornalistiche d’Oltreoceano. Esse riconoscono più al Pkk che ai miliziani di Barzani, sebbene egli sia da lunga data un alleato sicuro e morbido verso gli States, una reale motivazione per combattere le forze dell’Isis. Nel corso d’una conferenza stampa il Segretario di Stato Kerry per giustificare i lanci di armi (leggere) compiuti nel fine settimana assieme a quelli di medicinali e cibo a favore degli assediati di Kobanȇ, aveva ricordato le priorità del momento: battere i jihadisti. Ma il dialogo a distanza con Erdoğan non sente ragioni, visto che il presidente turco continua a bollare Pkk e Pyd come forze terroriste che non possono ricevere aiuti dal proprio governo. La questione kurda, che fra mille contraddizioni, aveva costituito un pallino dell’Erdoğan premier sembra ormai posta nel dimenticatoio. Nella crisi in atto l’unico Kurdistan su cui posa lo sguardo la leadership di Ankara è quello nord iracheno, dove dopo la ripresa del controllo dei peshmerga su Kirkuk la produzione petrolifera ha ripreso ritmi normali. E la Turchia può riavere 240.000 barili al giorno in luogo dei 100.000 che gli erano stati destinati negli ultimi tempi. Con un respirone di sollievo del ministro dell’energia Yıldız. Seppure nel magma iracheno nulla è scontato: a Baghdad gli attentati mortali proseguono e Kirkuk potrebbe riveder sventolare la bandiera nera.
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