Per un soffio il più grande e importante paese dell’America Latina non è tornato sotto il tallone della destra liberista e filo statunitense. Per soli tre punti percentuali, ossia circa tre milioni di voti, la presidente uscente Dilma Rousseff ha battuto il suo sfidante Aecio Neves, arrivato ad un pelo dalla vittoria.
La presidente uscente ha vinto con il 51,64% dei voti, mentre al suo oppositore Neves sono andati il 48,36% dei suffragi. Quello di ieri é il risultato più scarso ottenuto dal Partito dei Lavoratori da quando il metalmeccanico Lula da Silva vinse le presidenziali nel 2002. E, paradossalmente, dodici anni dopo molti dei brasiliani che alla fine hanno deciso di recarsi alle urne e scegliere Rousseff in realtà lo hanno fatto pensando proprio a lui, al presidente operaio e alle mille promesse di riforma e di riscatto sociale, la maggior parte delle quali non mantenute e rimaste lettera morta.
Ma la prospettiva che l’ottava potenza economica del mondo potesse cadere di nuovo sotto il giogo di Washington ha spinto molti a scegliere il ‘male minore’, o a sperare di nuovo che la rinnovata vittoria possa imprimere ad un ormai incolore PT una nuova spinta riformatrice.
Dal voto di ieri esce comunque un Brasile spaccato esattamente a metà sul piano elettorale e anche da quello sociale e territoriale, con classi sociali, stati e città che hanno votato compattamente per uno sfidante o l’altro. Salta agli occhi che le regioni più povere hanno votato Dilma, mentre quelle più ricche e sviluppate – in certi casi proprio grazie ai governi del Pt – hanno invece scelto il neoliberista Aécio Neves.
Il Partito Socialista del Brasile (PSB) che aveva candidato Marina Silva, con l’appoggio del Partito della Socialdemocrazia Brasiliana (PSDB, di destra), ha vinto nel Distretto Federale di Brasilia, mentre un altro partito di centrodestra, il Partito del Movimento Democratico Brasiliano (PMDB) alleato del PT, ha vinto negli stati di Rio de Janeiro e di Rio Grande do Sul.
La strada che Dilma si troverà di fronte da oggi in poi sarà irta di ostacoli. Il nuovo Congresso, in particolare la Camera dei Deputati, avrà infatti una maggioranza politica conservatrice. Il PT mantiene la maggioranza nelle due camere, è vero, ma il più importante dei suoi alleati, il Pmdb, ha approfondito la sua svolta conservatrice e personalista, confermandosi più una federazione di rappresentanti di interessi personali o regionali che un partito con una linea ideologica e politica con i quali scendere a compromesso su un programma progressista. Un partito così inconsistente e interessato esclusivamente al potere che durante la campagna metà dei suoi leader hanno sostenuto Dilma e l’altra metà il suo sfidante di destra. Quale dei due schieramenti prevarrà al momento di decidere le politiche governative e di condizionare la linea dell’esecutivo? Che ciò che rimane vivo all’interno del Partito dei Lavoratori possa imprimere una svolta riformatrice appare da questo punto di vista assai improbabile, se anche lo volesse. Non c’è praticamente nessun punto di convergenza tra un Pt sempre più debole e i suoi alleati, ed anche all’interno del maggiore dei partiti di governo le differenze tra le varie correnti sono enormi. E questa volta Dilma e i suoi dovranno fare i conti con una opposizione rinvigorita, forte, sostenuta da tutti i maggiori centri di potere mediatico del paese e non solo. Basti vedere la smodata reazione della Borsa di San Paolo e dei mercati internazionali alla notizia della riconferma del Pt per capire da che parte stanno i poteri forti.
Il voto di ieri ha portato in Parlamento una consistente pattuglia di deputati reazionari, con un ampio seguito di massa. Basti pensare che a San Paolo il deputato più votato è un presentatore della televisione che si dice disposto a fare qualsiasi cosa pur di opporsi ai diritti delle donne ad abortire o a quelli delle minoranze. A Rio de Janeiro il più votato è stato invece un militare in congedo nostalgico della dittatura e che afferma di preferire un figlio morto piuttosto che omosessuale. Saranno loro di fatto a guidare una consistente vandea ultrà fatta di pastori evangelici, latifondisti, professionisti rampanti ed esponenti delle lobby dell’agrobusiness e dell’industria delle armi.
Oggetto del contendere è naturalmente anche la politica estera del più grande paese del subcontinente, con la destra che vuole riavvicinarsi a Washington e in parte a Bruxelles e allentare i legami con i paesi dell’Alba e con le odiate Cuba e Venezuela.
Se il PT vorrà far fronte a un pezzo di società brasiliana sempre più egoista e aggressiva – una parte dei giovani esponenti delle classi medie cresciute grazie alle politiche espansive dei governi di questi anni non vogliono più saperne di politiche solidaristiche – dovrebbe mobilitare le organizzazioni sociali e popolari attorno ad un coraggioso piano di riforme su casa, terra, lavoro e diritti civili che finora però la Rousseff e i suoi non hanno saputo o voluto imporre.
L’impasse nella politica del paese è evidente, palpabile. Se è vero che alla fine ha prevalso, anche se per poco, il centrosinistra, è anche vero che nelle urne ieri si è toccato il record degli ultimi decenni in fatto di astensionismo, voto nullo e schede bianche. Un segnale di disillusione e distacco fortissimo ed inequivocabile.
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