Secondo due esperti l’amministrazione statunitense sta preparando i piani per dividere la Siria in due o più territori a sè stanti, così come la Casa Bianca ha provato, ed è riuscito in parte, a fare con l’Iraq, diviso in tre entità – a nord i curdi, al centro i sunniti e a sud gli sciiti – dopo l’invasione e l’occupazione del paese all’inizio del decennio scorso. Un progetto all’insegna del divide et impera al quale gli Stati Uniti ricorrerebbero nell’impossibilità di controllare tutto il paese e già adottato in altri quadranti del pianeta dove negli ultimi decenni interi stati sono stati distrutti o indeboliti puntando dagli invasori sulle divisioni etniche, culturali, religiose e politiche tra le diverse regioni. Da questo punto di vista la Siria, abitata da popolazioni di lingua e religione differenti – sunniti, curdi, alawiti, drusi, cristiani – si presterebbe notevolmente a diventare una nuova vittima della “destabilizzazione creativa” della Casa Bianca.
Secondo due analisti – il professore Joshua Landis e lo storico Farid Zakaria – gli Stati Uniti starebbero preparando la frattura della Siria e la formazione di uno stato a nord con capitale Aleppo, dominato dagli integralisti sunniti e sotto l’influenza della Turchia e delle petromonarchie arabe, e un altro a sud con capitale Damasco sostenuta dall’Iran e dalla Russia. Di fatto una riedizione odierna della divisione del paese ai tempi del mandato franco-britannico del 1924.
“Il tentativo statunitense di costruire in Iraq uno stato laico unitario è fallito miseramente” dice Joshua Landis, secondo il quale in Siria starebbe succedendo qualcosa di simile anche se il regime di Bashar al Assad mantiene il controllo su più della metà del territorio del paese o forse proprio per questo. L’intervento straniero nel paese, la destabilizzazione e il sostegno estero ai gruppi estremisti sunniti hanno fatto saltare la convivenza secolare tra le varie componenti del paese.
Ma secondo i due esperti la soluzione prospettata dalla Casa Bianca sarebbe indigeribile da parte di Israele che non accetterebbe comunque una Siria del sud sotto l’influenza iraniana e sarebbe comunque instabile anche se comunque a favore di Tel Aviv giocherebbe l’indebolimento di un suo nemico storico.
Secondo Landis la Turchia potrebbe accontentarsi di dominare un eventuale stato del nord della Siria anche se il suo obiettivo strategico rimane la rimozione del governo Assad e il riconoscimento della sua egemonia su tutto il paese. Ma Washington non vedrebbe di buon occhio un controllo totale della Siria da parte di una Turchia che negli ultimi anni è entrata più volte in rotta di collisione con gli interessi statunitensi nell’area perseguendo un’agenda propria e scontrandosi con la Casa Bianca sulla strategia da adottare contro le milizie dello Stato Islamico che Ankara continua esplicitamente a sostenere.
Ma anche all’interno dell’amministrazione Obama i punti di vista non sarebbero convergenti. Secondo il quotidiano arabo ‘Al Hayat’ esistono differenze radicali tra il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca. Stando al giornale, mentre l’equipe di John Kerry sostiene un intervento militare diretto contro la Siria, i consiglieri del Presidente Obama considerano con apprensione la possibilità di impantanarsi in un nuovo fronte come è già accaduto in passato in Afganistan e in Iraq. Incredibilmente alcune ore fa proprio John Kerry ha accusato il regime di Damasco e lo Stato Islamico di collaborare (!) e di aver pattuito un accordo reciproco di non aggressione. In realtà i combattimenti tra l’esercito di Damasco e le milizie jihadiste non sono mai cessati, anzi, e pochi giorni fa un video ha mostrato gli integralisti islamici decapitare decine di soldati siriani.
Mentre Washington appare sempre più decisa e contraddittoria nel suo intervento in Medio Oriente, sembra che Israele abbia deciso di dare il via ad una vera e propria escalation militare contro la Siria e nella collaborazione con i ribelli islamisti dall’altra parte del confine, dopo che nel fine settimana i caccia di Tel Aviv hanno bombardato alcune postazioni di Hezbollah e dell’esercito di Damasco.
I caccia con la Stella di David – almeno otto – hanno avrebbero colpito missili e droni di fabbricazione russa o iraniana stoccati in due diversi depositi ed avrebbero distrutto anche un convoglio di Hezbollah che si stava dirigendo verso il Libano uccidendo due combattenti. Si sarebbe trattato del raid israeliano più grave per conseguenze ed estensione da quando la Siria è scossa da una guerra civile con ampia partecipazione straniera. Ad avvalorare l’impressione che si sia trattato di un salto di qualità nella strategia di Tel Aviv contro la Siria le reazioni di Teheran e Mosca.
Nella capitale iraniana il ministro degli Esteri Javad Zarif ha incontrato il collega siriano Walid Muallem nell’ambito di una conferenza contro il terrorismo, puntando decisamente il dito contro Israele che secondo Muallem “aiuta i ribelli islamici a compensare le perdite subite». Secondo il consigliere di Putin Alexander Prokhanov gli «agenti del Mossad addestrano l’Isis in Iraq e Siria» perché «Isis è uno strumento degli Stati Uniti in Medio Oriente». In realtà le strategie di Washington e Tel Aviv sul Medio Oriente da tempo divergono ampiamente, ma Mosca è incollerita per i bombardamenti israeliani sulla Siria e chiedono conto ai protettori statunitensi di Israele.
Da parte sua il governo iraniano ha auspicato una soluzione ‘regionale’ per la crisi in Iraq e in Siria per scongiurare l’intervento di forze straniere con la scusa della lotta contro lo Stato Islamico. “Se i paesi della regione trovano un accordo potranno contribuire a eliminare gruppi antislamici cone Daesh (l’Isis in arabo) e liberare migliaia di uomini, donne, e bambini che hanno perso le loro case” ha detto il presidente iraniano Hassan Rohani in apertura della conferenza a Teheran alla quale partecipava anche una delegazione del governo di Baghdad. Rohani, alludendo ad Arabia Saudita e Qatar, ha esplicitamente chiesto ai “paesi che hanno contribito a finanziare il terrorismo… di interrompere ogni aiuto finanziario diretto o indiretto a questi gruppi terroristi” e di “modificare il sistema educativo e gli insegnamenti delle scuole religiose per lottare contro le interpretazioni estremistiche e violente della nostra religione e presentare invece la natura clemente dell’islam”.
Intanto il premier britannico David Cameron è arrivato oggi ad Ankara per incontrare il suo omologo Ahmet Davutoglu e il presidente Recep Tayyip Erdogan. Un nuovo tentativo di coinvolgere la Turchia nella guerra a bassa intensità contro le milizie islamiste che in realtà il governo liberalislamista turco sostiene attivamente. Cameron ha posto alle massime autorità turche il problema di centinaia di cittadini britannici – sembra 500 – che sono andati a combattere insieme alle milizie guidate da Al Baghdadi passando proprio per la Turchia che non sembra aver fatto molto per bloccarli. Secondo alcune indiscrezioni, il premier britannico avrebbe chiesto alla coppia Davutoglu/Erdogan di fornire a Londra le liste passeggeri dei voli commerciali tra i due paesi per individuare i jihadisti. Ma a Cameron il “sultano” avrebbe ripetuto la richiesta già rivolta ad Obama di lasciare che le forze armate della Turchia impongano una no-fly zone nel nord della Siria “per aiutare i rifugiati e i ribelli anti-Assad”.
Nelle ultime ore si segnala inoltre un giallo proprio alla frontiera tra Turchia e Siria, dove ieri notte alcuni soldati turchi hanno perso la vita in un episodio poco chiaro. Secondo il premier Davutoglu sarebbe stato un loro commilitone a sparare ma la dinamica dei fatti rimane tutta da appurare. “Il fatto si è verificato a causa dello stress psicologico dovuto a una conversazione telefonica e uno scambio di messaggi di uno dei soldati. Non si è trattato di nessun attacco né terroristico né proveniente dall’altro lato del confine” ha riferito Davutoglu dopo aver parlato con il capo di stato maggiore dell’esercito turco.
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