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Le petromonarchie contro gli Usa: “La lotta all’Isis non è una priorità”

Se lo Stato Islamico (Isis) é al momento l’organizzazione terroristica di matrice islamica che catalizza l’interesse e l’attenzione internazionale (anche perché permette alle potenze occidentali di mettere non uno ma due piedi in Medio Oriente), è su altre sigle che ragionano i governi arabi. In particolare su Al Qaida e i Fratelli musulmani che secondo i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo – le petromonarchie, per intenderci – rappresentano una minaccia per la stabilità della regione. E’ quanto é emerso al “Forum sulla sicurezza futura del Ccg: combattere l’estremismo” che ha riunito ad Abu Dhabi accademici ed esperti della politica e della sicurezza dei vari paesi aderenti.

I Fratelli musulmani, movimento politico salito al potere al Cairo con il governo Morsi dopo la destituzione di Mubarak e poi messo fuori legge con il golpe militare e ritenuto illegale in Arabia Saudita e Bahrein e di natura terroristica negli Emirati Arabi Uniti (Eau) “non deve essere sottovalutato”, ha dichiarato Tariq Fahmi, direttore del Dipartimento politico e strategico al Centro nazionale per gli studi mediorientali.

Le minacce sono molteplici e il ruolo dell’Isis e’ stato “esagerato”, ha sostenuto dal canto suo il capo delle forze di sicurezza degli Emirati, Dahi Khalfan Tamimi. “Non sono d’accordo con il presidente americano Barack Obama sulla necessità di una campagna a lungo termine contro Daesh (nome arabo dell’Isis, ndr)”, ha detto il generale. “Il potere di Daesh é stato esagerato per ragioni sconosciute. Forse per favorire i produttori di armi”, ha ipotizzato, ricordando che è l’intero blocco Isis-Al Qaida-Fratelli musulmani a dover essere sconfitto.

“Non c’e’ modo di tornare indietro. Il mio paese, nonostante le migliori intenzioni, ha fatto degli errori in passato, ma ha imparato la lezione ed é disposto a sedere con i propri partner e discutere metodi per non incorrere negli stessi errori”, ha detto dal canto suo Peter Pace, già presidente dello Stato maggiore delle forze armate statunitensi.

L’accento sulle possibili minacce alla sicurezza del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg) che comprende Arabia saudita, Kuwait, Qatar, Bahrein, Eau, Oman, non ha toccato solo l’estremismo “ideologico” ma é anche questioni regionali molto concrete come il conflitto israelo-palestinese.

“Anche il profondo senso di ingiustizia fomenta gli estremismi violenti”, ha sostenuto Ahmad Thani Al Hameli, del centro Trends Research and Advisory, accennando all’annunciato veto statunitense atteso al prossimo Consiglio di sicurezza dell’Onu riguardo la risoluzione che prevede la fine dell’occupazione israeliana dei Territori palestinesi entro il 2017.

Le critiche delle petromonarchie nei confronti degli Stati Uniti segnalano una divergenza sempre più forte tra le nuove potenze regionali in ascesa e il tradizionale egemonismo statunitense, entrato in crisi proprio in Medio Oriente quando Obama dovette bloccare i suoi bombardieri pronti a bombardare Damasco a causa dell’intervento di Russia, Cina e Iran. A quel punto le petromonarchie arabe hanno preso atto delle difficoltà di Washington, accentuando così una politica regionale ed estera diventata in gran parte autonoma dal gigante imperialista in crisi e da una Unione Europea che nell’area può vantare uno scarso controllo. Una agenda autonoma, quella dei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, che trova proprio nel comportamento nei confronti dell’Isis una manifestazione, con le petromonarchie impegnate formalmente nella coalizione antijihadista insieme a Washington e ai paesi Ue ma nei fatti sostenitrici del Califfato nella misura in cui permette loro il soddisfacimento dei propri interessi e comunque in competizione con le potenze occidentali, oltre che con la Turchia, rispetto ai futuri scenari che ognuna delle parti in causa cerca di imporre in Siria, in Iraq, in Libano e in tutta la regione.

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