Intervistiamo una compagna della Delegazione romana per Kobane tornata da un recente viaggio in Kurdistan.
Su Contropiano sono stati pubblicati tutti i contributi della delegazione; in questa intervista non ci soffermeremo sui dati di cronaca bensì su dati politici, nell’intento di mettere a fuoco in maniera chiara il contesto storico, politico e materiale entro cui si sta sviluppando l’eroica Resistenza di Kobane, astenendoci, tuttavia, dall’atteggiamento da tifoseria troppe volte adottato a sinistra in materia di politica estera.
Quali le impressioni avute dalla vostra esperienza? Avete avuto la sensazione di trovarvi di fronte un movimento rivoluzionario di portata storica? C’è qualche messaggio che i compagni curdi vi hanno chiesto di diffondere?
L’impatto con la realtà locale del Kurdistan turco, specie per chi vi si addentrava per la prima volta è stato piuttosto forte, anche emotivo. Siamo atterrati ad Istanbul per poi proseguire il nostro viaggio fino al confine tra la Turchia e la Siria. Grazie ai nostri contatti ci siamo mossi in maniera autonoma, aggirando i posti di blocco dell’esercito e della polizia militare turchi fino ad entrare subito in contatto con la realtà quotidiana degli abitanti. Senza mezzi termini, con poche mediazioni. Il 27 novembre, appena giunti alla periferia di Suruc, il centro cittadino a pochi chilometri da Kobane, siamo stati accolti dai fuochi d’artificio che festeggiavano la fondazione del Pkk. Non è passato molto che ai botti gioiosi della celebrazione sono seguiti i colpi di mortaio e di artiglieria dei combattimenti e i cupi rimbombi delle sparute bombe della coalizione che ci hanno accompagnato per tutto il tempo. Rumori sinistri che ricordano costantemente che si sta combattendo una guerra di posizione che rappresenta un importante snodo nevralgico del conflitto siriano all’interno del fitto bacino d’interessi delle potenze nel Medio Oriente. Di sicuro la tenace resistenza dei curdi siriani ha inceppato i piani di Califfato e affini, i progetti di stati come la Turchia che non vedevano l’ora di sentenziare la fine della Rojava. Tutto ciò mentre i bombardamenti di facciata della coalizione Nato colpiscono obiettivi secondari dell’IS fingendo di non vedere le postazioni utilizzate dai miliziani come quartieri generali su cui svetta l’enorme bandiera nera del Califfato. Mentre l’esercito turco, testimoniano foto, filmati e testimonianze, non solo lascia passare indisturbate le reclute dell’IS dalla Turchia attraverso il confine, ma lascia girare gli stessi miliziani in territorio turco, come ci è stato riferito dagli abitanti del villaggio di Zahvan.[1] Al momento la Turchia sta premendo per l’istituzione di una No-fly zone, in attesa di entrare in campo al fianco della coalizione per ottenere anch’essa il suo bottino di guerra. Vedremo come evolverà la situazione.
La resistenza di Kobane è una resistenza ostinata e contraria che non solo ha avuto il merito di rallentare l’avanzata delle truppe dell’IS, ma dall’enorme portata simbolica e rivoluzionaria all’interno di tutto il Medio Oriente. Rivoluzionaria perché vede, in perfetta continuità con le direttive politiche della svolta del movimento curdo, improntate alla parità di genere, un protagonismo attivo delle donne inquadrate nelle Ypj, le sezioni femminili delle Unità di Difesa del Popolo (Ypg). Esse portano avanti una lotta nella lotta, una guerra di posizione e di genere contro il patriarcato fondamentalista dell’IS e un messaggio di auto-liberazione dal sessismo dei rapporti sociali di matrice capitalistica. Rivoluzionaria perchè le macerie della città di Kobane ospitavano un’esperienza di autogestione compresa entro uno dei cantoni della Rojava, sul modello del Confederalismo Democratico. I profughi con cui abbiamo potuto parlare ci hanno raccontato che, nonostante la povertà di un territorio costretto ad anni di dominazione politica, economica e sociale, vivevano una reale condivisione dal basso. Difendere Kobane, dunque, vuol dire difendere l’esperienza dell’autonomia di governo: un’autorganizzazione che permette la convivenza di curdi, cristiani, arabi e altre minoranze e che punta dritta al cuore degli stati costituiti, primo fra tutti quello turco, minandone la legittimità e l’autorità dall’interno. Resistere a Kobane vuol dire mantenere il patto di cambiamento sociale e politico suggellato con il movimento e la popolazione curdi, condensare attorno a queste parole d’ordine tutta la resistenza curda. I compagni sanno bene che se cade Kobane viene minata l’intera esperienza della Rojava: il primo passo della coalizione, assieme al governo turco, potrebbe essere un massiccio intervento armato con la scusa della liberazione mettendo di fatto fine all’intera esperienza dell’autogoverno. Inoltre lo stato turco saprebbe sfruttare come scusa l’evidenza della presenza dell’IS ai propri confini per sgomberare i villaggi del Kurdistan turco, importante retroterra strategico della resistenza curda siriana, per farne la tanto decantata zona cuscinetto tra Turchia e Siria. Cosa che ha già minacciato di fare in questi giorni e oggetto di lunghe trattative con il governo statunitense. I curdi, dunque, vedono minacciata la loro stessa esistenza in tutto il Medio Oriente, insieme a quella della altre minoranze. Ormai si tratta di resistere per esistere: Kobane, che al momento ospita ancora 2000 civili che non possono muoversi a causa di vari fattori tra i quali i check point turchi, non può essere abbandonata. La difesa è insieme una necessità pratica e politica. Ciò che ci chiedono tuttora i compagni curdi e gli abitanti dei villaggi, oltre ad aiuti di tipo materiale per le centinaia di rifugiati che continuano ad arrivare nei campi profughi, è di raccontare ciò che sta succedendo, di spiegare all’Europa e al resto del mondo che all’interno dei giochi di potere imperialisti si sta tentando di cancellare un’esperienza rivoluzionaria, di spazzare via interi popoli. Ritengo, dunque, che sia nostro interesse e dovere continuare a fare un lavoro d’informazione e contro-informazione, decostruire la retorica mainstream, supportare la resistenza del popolo curdo: aprire un dibattito intorno a questa esperienza che possa offrire spunti di riflessione anche a noi, che dall’Italia assistiamo forse un po’ troppo meravigliati e affascinati, ma poco lucidi in termini politici, alla resistenza di questa città. Perché se è vero che l’Italia non è Kobane, e che Kobane non è il Chiapas, la svolta politica rappresentata dal Confederalismo Democratico, pur essendo ovviamente il frutto di un’esperienza assai diversa dalla nostra, manifesta una potenzialità in termini di critica ed auto-critica e rappresenta uno sforzo di rielaborazione tattica e strategica che non possono e non devono passare inosservati.
Abbiamo tutti letto sui vari siti curdi, dai vostri e da altri contributi come funzionano concretamente l’autogestione democratica nella Rojava, il ruolo delle donne e le concezioni avanzate sul rapporto con la natura. Voi siete stati dalla parte turca del Kurdistan: come si cerca di replicare quel modello in Turchia, dove comunque bisogna fare i conti con l’entità statuale turca, le sue strutture repressive, che spesso costringono il PKK ad avere un’articolata tattica a cavallo fra legalità e illegalità? Come influisce il pessimo andamento del processo di pace con Ankara per una risoluzione pacifica del conflitto?
Non solo i campi profughi organizzati dalla comunità locale sono autogestiti. Anche il villaggio di Mehser, in cui noi stavamo, ad esempio, è un villaggio autorganizzato dal basso e provvisto di cassa comune: ogni livello assembleare conta un responsabile donna e uno uomo, il che non rappresenta semplicemente un “pro forma”, bensì una pratica reale, avendo potuto constatare il lavoro che i compagni e le compagne svolgono fianco a fianco. Notando che la maggioranza dei villaggi sono di piccole dimensioni, ho chiesto se questa condizione specifica costituisse in generale un presupposto importante nella teorizzazione e nel funzionamento dell’autogoverno. Mi è stato risposto che senz’altro si tratta di un aspetto considerevole, ma che grazie alla strutturazione su più livelli di autonomia, da rioni a quartieri a città fino ai livelli più alti di rappresentanza, il Confederalismo democratico trova applicazione anche nelle cittadine più grandi. C’è da considerare inoltre il tipo di società che ospita la volontà di estendere e consolidare questa esperienza: al di là di cittadine che contano migliaia di persone e di quelle a maggior carattere urbano, si tratta per lo più di ambienti rurali e semi-rurali in cui una storia di dominazione e la costante repressione del governo turco facilitano la condivisione di valori sociali e di un’identità culturale che fa dell’opposizione al modello semi-capitalista di alcune zone della Turchia e a quello capitalistico della Turchia “avanzata” la propria definizione. Con questo non voglio affatto rappresentare un’idilliaca situazione pastorale degna di una visione primitivista, ma dobbiamo renderci conto che la resistenza curda poggia su un substrato sociale e culturale molto diverso da quello entro cui ci muoviamo all’interno della nostra società. Un contesto specifico che ci impone di pensare in maniera diversa, forse anche di mediare con più attenzione concetti e categorie che siamo abituati ad utilizzare con tanta naturalezza nell’ambito di analisi volte ad esaminare quotidianamente la nostra realtà: ad esempio, senza le dovute premesse, rischia di apparire quasi ideologico calare dall’alto termini quali classe lavoratrice e proletariato, poiché significherebbe distorcere la specificità locale e la soggettività del movimento curdo. Ed è in questo contesto che il Pkk si muove come un pesce nel fiume. Certamente la presenza e l’impegno politico di quest’ultimo sono elevati, ma dobbiamo considerare che con la svolta teorica di Ocalan e del partito, il movimento curdo non solo si sta dotando di tutta una serie di strutture istituzionali e para-istituzionali, laddove il contesto repressivo lo permette, ma soprattutto di una disposizione capillare in termini di associazionismo civile. Esistono strutture e associazioni per le donne, per gli anziani, per i giovani, centri di formazione e un Congresso Democratico del Popolo (HKP) che raccoglie esponenti politici, associazioni della società civile e fasce emarginate di tutta la Turchia: si tratta di un processo recente e in divenire di costruzione di un vero e proprio sistema sociale che possa essere capace di dialogare in misura trasversale anche con quella parte di società civile turca finora impenetrabile, indifferente o contraria, al processo di emancipazione curdo. Un lavoro lungo e non privo di contraddizioni. Il governo turco sa bene che tipo di minaccia possa costituire il passaggio da una lotta di “avanguardia”, per quanto largamente sostenuta dalla popolazione, all’organizzazione politica della società civile: per questo continua a reprimere non solo chi partecipa alle manifestazioni a sostegno della causa curda, che si tratti di curdi o turchi, ad arrestare i guerriglieri feriti che riescono ad attraversare il confine turco-siriano per farsi curare, ma anche ad arrestare deputati e parlamentari, a vessare i prigionieri politici curdi in carcere e ad osteggiare il dialogo di pace con Ocalan.
Tradizionalmente la sinistra di classe turca non vede di buon occhio quella curda; fanno eccezione solo l’area marxista-leninista e parte di quella anarchica. Ne avete parlato con le popolazioni e gli esponenti politici curdi che avete incontrato? So che avete incontrato anche degli anarchici di Istanbul…
Ci sono molti attivisti turchi e internazionali che appoggiano politicamente e concretamente la resistenza della Rojava, appartenenti soprattutto al bacino dell’associazionismo e ad altre frange politiche radicali e di sinistra. Parte del movimento liberatario, in particolare il DAF (Azione Anarchica Rivoluzionaria), un gruppo anarchico di Istanbul, ha anche partecipato a numerose azioni di solidarietà lungo il confine turco-siriano. Che io sappia l’MLKP (Partito Comunista Marxista Leninista) ha denunciato il ruolo delle forze imperialiste nella guerra in Siria e dichiarato Kobane “fronte di resistenza”, valutando positivamente l’esperienza della Rojava. Alcuni loro militanti sono morti durante i combattimenti nella città siriana. Anche l’EMEP (Partito del Lavoro turco, diverso dall’IP), ha espresso solidarietà alla resistenza curda. DAF (Azione Anarchica Rivoluzionaria, gruppo anarchico di Istanbul)DAF (Azione Anarchica Rivoluzionaria, gruppo anarchico di Istanbul)Per quanto riguarda il BDP, il Partito della Pace e della Democrazia che raccoglie a livello istituzionale le istanze curde, esso rientra ora all’interno dell’HDP (Partito Democratico dei Popoli), sorto come coalizione di partiti le cui radici affondano nel periodo pre-elettorale del 2011 ma che nasce ufficialmente nel 2013 proprio con l’intento di ricomporre tutta l’opposizione di sinistra operante nello Stato turco. Purtroppo l’opinione pubblica è quella più difficile da convincere: nonostante le crescenti accuse alla Turchia di sostenre l’IS, la disinformazione del governo riesce comunque a criminalizzare la resistenza curda ponendo sullo stesso piano IS e unità combattenti curde.
Da qualche mese una coalizione internazionale, con a capo gli USA sta operando bombardamenti in Siria (quindi anche nella Rojava) e Iraq contro l’ISIS, entità creata dalle petromonarchie alleate dell’imperialismo allo scopo di abbattere il Governo Siriano ed espandersi in tutto il Medio Oriente, poi rapidamente sfuggita di mano fino a giungere ad aggredire il principale alleato degli USA nell’area, ovvero la regione semi-indipendente del Kurdistan iracheno guidata da Barzani. Come sappiamo, l’attacco dell’Isis alla Rojava è il motivo della vostra e di altre spedizioni. Qual è, secondo te, la funzione che, nelle intenzioni dell’imperialismo, dovrebbe avere quest’intervento armato? La coalizione sta raggiungendo i suoi scopi? Come è visto dalle popolazioni questo aiuto, o presunto tale, da parte dell’Occidente?
Dobbiamo capire innanzitutto che la rete degli interessi chiamati in causa è molto fitta e molti degli “strateghi” in campo stanno attuando un doppio gioco estremamente articolato. L’intervento della coalizione in Rojava rappresenta senz’altro un’operazione di facciata di fronte ad una situazione figlia degli scompaginamenti politici dell’area, non ultime le cosiddette “primavere arabe”, dalle forti ingerenze occidentali e non solo, ma che si poggiano in ogni caso su basi e contraddizioni locali. La resistenza curda e l’esperienza dell’autogoverno democratico della Rojava si trovano all’interno di un braccio di ferro in cui si gioca la loro esistenza ma in cui il bottino è molto più grande. Man mano che va avanti il conflitto per il potere e per le risorse energetiche, l’impressione è che a Kobane i bombardamenti della coalizione tendano a mantenere un gioco perverso di equilibri in cui naturalmente l’IS, foraggiata dai suoi numerosi alleati tattici, si trova avvantaggiata rispetto ai guerriglieri curdi, circondati da un embargo di fatto. Nel frattempo la fanno da padrone gli accordi sottobanco in cui ognuna delle potenze o aspiranti tali è alleata con il proprio nemico e nemica del proprio alleato, cercando di strappare concessioni di potere economico e politico e di inserirsi nelle contraddizioni avversarie laddove possibile. Si sta combattendo uno scontro su più fronti di matrice imperialista: al di là delle dichiarazioni ufficiali e delle operazioni militari di superficie, occorre guardare alla battaglia economica ed energetica in corso, più silenziosa delle bombe ma forse maggiormente esplicativa. Per questo, senza avere la pretesa personale di raccontare “la verità” assoluta e definitiva sullo scontro in atto, occorre tracciare un breve quadro geopolitico per inquadrare una serie di aspetti. Negli ultimi giorni abbiamo assistito al crollo del prezzo del petrolio, all’immissione di enormi quantità di oro nero sul mercato da parte dell’OPEC e all’aumento della produzione da parte degli Usa. Il che lascia prefigurare una strategia ben precisa, al di là degli investimenti in Upstream effettuati negli anni scorsi con il flusso di produzione che ne consegue in relazione alla domanda di breve periodo. All’inizio di novembre il prezzo del petrolio è crollato; il cambio euro/dollaro si è mantenuto stabile mentre il rublo si è dimezzato, anche a seguito degli echi degli effetti della “crisi” Ucraina, dove un golpe nazista appoggiato da Usa e Ue (Germania in primis) ha provocato una guerra civile che spacca il paese a metà. L’abbassamento dei prezzi comporta enormi difficoltà per paesi avversari degli Usa quali Russia e Iran. A questo proposito, voci di fonti indipendenti non ancora confermate avrebbero annunciato che dal 1° gennaio 2015 il rublo russo verrebbe stabilito come unica moneta di pagamento nella fornitura delle sue risorse energetiche all’estero, compresa l’Europa. Forse una risposta alle sanzioni europee seguite all’esplosione della questione ucraina e a questo gioco al ribasso in cui Arabia Saudita, Qatar e altri emirati arabi costringono anche l’Iran ad abbassare i prezzi: il che, insieme alle sanzioni, danneggia pesantemente Teheran, che per produzione di petrolio è di gran lunga dietro i suoi avversari. L’Iran d’altro canto continua ad avere dalla sua parte Mosca, il governo Assad e i libanesi di Hezbollah. Il Qatar condivide con l’Iran la sovranità sul più grande giacimento di gas naturale al mondo: il “South Pars-North Dome Field”, compreso tra le acque del Golfo e le terre iraniane. Esso rappresenta circa il 20% delle riserve mondiali di gas naturale. La North Pars è la parte sotto il controllo dell’Iran, per la quale nel 2006 la compagnia statale cinese CNOOC ha siglato un accordo con il governo iraniano per sviluppare l’estrazione del giacimento e costruire un’infrastruttura che portasse gas in territorio cinese. L’altra parte, quella sotto il controllo del Qatar, costituisce da sola la terza riserva naturale al mondo dopo Russia e Iran. Nel 2011 Siria, Iran e Iraq firmarono un accordo che prevedeva la costruzione di un gasdotto che avrebbe dovuto diramarsi dall’iraniana Assalouyeh fino a Damasco in Siria attraverso il territorio iracheno. Ciò avrebbe trasformato la Siria in un centro nevralgico di passaggio di risorse energetiche ma anche di assemblaggio e produzione, in congiunzione con le riserve del Libano. Poco dopo il governo Assad annunciò la scoperta di un bacino di gas nella regione centrale della Siria, l’area di Qarah (vicino Homs), al momento oggetto di contesa tra il governo siriano e l’IS. Questo avrebbe significato sicuramente buone opportunità per i suoi partner commerciali di fiducia, Iran e Russia: da una parte un ottimo sbocco sul Mediterraneo e quindi sui mercati europei, dall’altra un modo per integrare vicendevolmente le produzioni e la compra-vendita di risorse energetiche. Il Qatar, che si trova in forte competizione con questi ultimi sia per quanto riguarda i mercati asiatici, sia per i mercati europei, ha capito che occorreva destabilizzare la Siria di Assad per indebolire i suoi avversari. Ed è anche in questo quadro che la Siria è divenuta centrale all’interno dei conflitti del Medio Oriente e non solo. Non dimentichiamoci inoltre delle tensioni tra Iran e Israele, dovute anche al Bacino del Levante, riserva di gas naturale situato nelle acque tra Cipro e Gaza. Sono sempre di questi giorni le notizie dei bombardamenti di Israele volti a danneggiare le vittorie dell’esercito regolare siriano dopo gli importanti risultati a Damasco e a Deir-ez-zor contro i “ribelli”. Un Israele che mantiene, insieme agli Usa, un piano di sostegno clandestino all’IS mentre continua a sostenere una facciata di comodo nei confronti dell’opinione pubblica costruita sulla retorica della lotta al terrorismo islamico. Un accordo bilaterale del marzo 2013 tra Israele e la Nato in nome della pace “nel Medio Oriente e nel mondo” (ordine di parole tutt’altro che casuale) suggella la lunga storia di cooperazione militare tra Israele e Usa. L’ulteriore tassello di un’ottima premessa per potere raccogliere i frutti di un intervento a fianco della coalizione sotto l’egida della “democratica lotta contro il terrorismo e il fondamentalismo islamico”. Anche il sostegno ai Peshmerga di Barzani e il loro utilizzo come cavallo di troia per quanto riguarda la resistenza delle Ypg/Ypj a Kobane non va dunque visto in termini contraddittorii: non si tratta di un paradosso, bensì dell’altra faccia di una strategia piuttosto coerente. La coalizione continua ad inviare ingenti aiuti militari nella parte Nord-Ovest dell’Iraq, la Regione Autonoma del Kurdistan iracheno, fin dove si è spinta l’IS, dove si stanno concentrando efficacemente i bombardamenti Usa. Il messaggio appare piuttosto chiaro: toccate pure Assad, toccate la resistenza curda siriana ma non toccate i precari equilibri in Iraq, frutto dell’intervento militare della guerra santa di Bush. Ora l’IS, dalla zona di Hasakah e Dei-er-zor, un’importante zona di giacimenti energetici, si è spostata verso la parte Nord-est della Siria, aprendo recentemente un fronte di battaglia in una cittadina vicina Serekaniye, a 180 km da Kobane. Seguendo quasi fedelmente la rotta delle riserve energetiche della Siria fino ad un altro dei cantoni siriani della Rojava. Alcune testimonianze dei prigionieri IS catturati dalle Ypg/Ypj parlano chiaro: “ci sono ricchi depositi di petrolio a Rimelan e in altri luoghi della regione curda. Vogliamo prenderli. Questa regione è ricca e loro sono infedeli, è per questo che abbiamo avviato una guerra contro i curdi”.[2] Rimelan, dal canto suo, fornisce metà della produzione di petrolio della Siria. Fonti sul posto parlano di Aleppo e Tal-Abyad utilizzate come centri di smistamento per il petrolio che arriva di contrabbando dall’Iraq e dal resto della Siria e di rotte dirette proprio verso il territorio turco. Laggiù ci spiegavano come, appunto, la venuta dell’IS abbia portato grandi sconvolgimenti per quanto riguarda il contrabbando, che ora interessa soprattutto petrolio e armi, con una battuta di arresto per droga, alcool e tabacco. Ed in tutto questo la Turchia? Il governo turco, approfittando della destabilizzazione di Assad e dunque della diminuzione di riflesso dell’influenza iraniana, corteggia, non senza problemi, Israele e Usa con l’ottica di acquisire maggiore importanza all’interno della politica regionale. D’altro canto, approfitta anche del cambio di tattica russo in materia di gas e petrolio, da vedersi anche in relazione con la situazione ucraina. All’ultimo convegno sulle risorse energetiche, alla fine del quale Putin ha dichiarato la rinuncia alla costruzione del gasdotto Southstream, uno dei fattori principali del golpe ucraino, è stata annunciata la costruzione di un nuovo gasdotto che dovrebbe portare il gas russo fino al Mediterraneo, passando dalla Grecia e dal territorio turco. L’unica cosa certa di questo ginepraio è che gli Stati uniti non intendono aiutare veramente la resistenza siriana curda né arrestare, almeno per il momento, l’IS; così come appare evidente che la Turchia temporeggia contribuendo alla distruzione dell’esperienza di autogoverno in territorio siriano fino ad un eventuale intervento della coalizione che ristabilisca l’ordine “democratico” delle cose, approfittando per minare il retroterra turco del processo di emancipazione curdo. L’accusa di filo-imperialismo al Pyd mossa da parte una serie di settori della sinistra politica turca è il “frutto di” e “volta ad” una serie di rapporti ed equilibri locali: perciò forse si dovrebbero identificare bene in termini politici chi sono coloro che sostengono questa opinione prima di assumerla come “affidabile”. A tal proposito, riguardo l’accettazione delle armi e della presenza dei peshmerga curdo-iracheni a Kobane, è interessante citare la lettera di Rıdvan Turan, Segretario generale del Partito Socialista Democratico (SDP) turco, il quale sottolinea l’esistenza di una distanza politica oggettiva del PYD dal KDP filo-Usa e Israele di Barzani, frutto di anni di scelte diverse e anche di forti momenti di scontro. Poi, se è vero che la parte Nord-est della Siria costituisce un importante bacino energetico siriano che i curdi sfruttavano in minima se non nessuna parte al prezzo di un’autonomia di governo raggiunta attraverso un lungo e complicato processo, arrivare ad affermare un’accusa di collaborazionismo filo-imperialista con il governo di Assad o con Usa e coalizione per aver accettato degli aiuti di natura materiale significa secondo me non riuscire a tenere distinti i piani della tattica e della strategia, chiave di lettura essenziale per analizzare i fenomeni politici, compresi quelli internazionali.
I curdi non stanno proteggendo il petrolio di nessuno, né per conto di nessuno: stanno proteggendo un’esperienza dall’enorme portata rivoluzionaria, frutto di un percorso difficile e certo non privo di contraddizioni, come tutti i processi di politica reale. All’interno di queste contraddizioni che s’intersecano fittamente, credo che i compagni curdi siano ben consapevoli di quello che si muove loro attorno.
Veniamo ora al punto di vista strettamente ideologico. Da tempo il PKK ha abbandonato il marxismo-leninismo per approdare ad un nuovo schema ideologico definito “Confederalismo Democratico”; sinteticamente, esso consiste nel rifiuto della presa del potere statale come mezzo per abbattere il capitalismo (ciò si accompagna alla rinuncia della rivendicazione di una stato curdo indipendente), a favore di democrazia radicale dal basso la quale, pur sviluppandosi all’interno degli stati borghesi così come sono ora, darebbe luogo ad un’evoluzione verso il socialismo. Noi rifiutiamo l’ottica eurocentrica secondo la quale siamo noi occidentali a dover dettare ai Curdi la linea, tuttavia riteniamo anche che da parte nostra non si debbano imitare o importare le loro concezioni; esse, bensì, vanno analizzate nel loro contesto storico e materiale. Quali sono le coordinate storiche e la base materiale dalle quali sono scaturite le nuove coordinate ideologiche del Pkk? Che livello di discussione e comprensione c’è di esse fra la popolazione?
La soggettività del movimento di emancipazione curdo si basa su un’unitarietà culturale e sociale cui la lotta inizialmente di stampo prettamente marxista leninista si è sempre richiamata. Si tratta di una società estremamente diversa dalla nostra, in cui abbiamo assistito allo sviluppo della società civile occidentale e alla maturazione delle democrazia liberale così come la conosciamo. Occorre poi considerare che lo stato di sviluppo del sistema capitalistico, così come le sue contraddizioni a livello economico, politico e sociale, ha una propria caratteristica ed una forte specificità locale. Mentre noi ci dobbiamo confrontare con una società civile odierna che ha alle spalle processi, in termini di organizzazione e di associazionismo, che affondano le loro radici nella seconda metà del 1800, qua si assiste ad un processo di organizzazione della società civile, alla creazione recente di un sistema civile di una comunità che, nonostante la repressione e i tentativi di assimilazione forzata, si è trovata di fatto a radicalizzare la propria identità culturale. All’interno di questo contesto la lotta del Pkk è giunta a maturare una nuova strategia politica: si è trattato di uno sforzo di rielaborazione pratica e teorica notevole, in riferimento al mutare dei rapporti di forza interni, al livello repressivo, ma anche ai mutamenti del contesto internazionale. Ocalan nei suoi scritti afferma che a fronte del processo di globalizzazione ed in base alla situazione oggettiva del Medio Oriente per il popolo curdo è impossibile aspirare ad uno stato nazione così come ad un mercato nazionale curdo. E’ così che giunge a teorizzare, influenzato senza dubbio dalle teorie del municipalismo libertario di Bookchin, un’autonomia di governo, un autogoverno democratico che non mette in discussione i confini dello stato ma che mette in discussione la legittimità, l’autorità e dunque l’esistenza dello stato stesso. Nelle comunità dove vivono le assemblee dal basso, in cui trovano piena rappresentanza uomini e donne; in cui vengono istituite cooperative senza padroni il cui guadagno è redistribuito all’interno della società; in cui la “Commissione Giustizia”, una delle tante, risolve i contenziosi che il governo turco ha lasciato pendere per anni; in cui ogni individuo trova espressione nel nome dell’ecologia, della parità di genere e della fine dello sfruttamento all’interno della e come collettività: chi ha bisogno dello stato, soprattutto di quello turco? Occorre senz’altro ribadire l’importante ruolo del Pkk nello sviluppo di questa esperienza di auto-organizzazione, onde evitare equivoci e soprattutto per rendere giustizia ad una storia di decenni di lotta e sacrifici: l’auto-organizzazione nasce dall’organizzazione, grazie alla mobilitazione e al dispiegamento di forze sedimentate nel passato da questo partito rivoluzionario. L’autorganizzazione che si sta sperimentando oggi, inoltre, gode di una certa agibilità politica proprio grazie alle articolazioni “democratiche” dell’organizzazione cui spetta il ruolo di contrattazione dal punto di vista istituzionale: pensiamo ad esempio alla funzione essenziale svolta dal Bdp in Turchia, dal Pyd in Siria, dal Pjak in Iran, a tutti quei contenitori congressuali ed associazionistici come l’Hpg ecc. Il Pkk si avvia a divenire un sistema sociale sulla base di alcune delle motivazioni di Ocalan espresse precedentemente ma anche per sfruttare al meglio gli spazi concessi dalla democrazia, o meglio, dalla repressione governativa: si tratta di un tentativo consapevole di avviare un dialogo con la società civile turca. Se la Turchia vuole veramente entrare a far parte del teatrino conciliabolo di democrazie occidentali dell’Unione Europea, si troverà a fare i conti con la contraddizione tra la sua natura reazionaria nei confronti delle istanze del movimento curdo (e non solo) e l’assunzione di una facciata democratica in termini di garanzie minime liberali davanti all’opinione pubblica turca e non solo. Non dimentichiamoci, inoltre, che tutta l’insoddisfazione e la rabbia sfociata con la rivolta di Piazza Taksim e la difesa di Gezi Park, per quanto ora si trovino in una fase di reflusso, ha costituito un’esperienza importante, segno del fatto che la società turca è ricettiva, lungi dall’essere un qualcosa di monolitico e autarchico. Questi brevi ragionamenti, che senz’altro meriterebbero ulteriori approfondimenti, servono a sottolineare il fatto che la svolta del Confederalismo democratico è una svolta politica pensata, ragionata, aderente al contesto in cui prende vita. Voglio aggiungere poi che termini quali “confederalismo”, “autogestione”, “autogoverno”, “democrazia reale”, ecc., hanno una valenza esperienziale, storica, politica ma soprattutto pratica diversa da quella che gli possiamo dare noi. La parola “democrazia”, l’accezione democratica della politica, ad esempio, in questo caso ha poco a che fare con l’esperienza storica italiana, segnata dal riformismo e dall’opportunismo della nostra sinistra parlamentare: si tratta invece di un concetto da elaborare, un contenitore da definire e da riempire, un processo da costruire in maniera attiva, condivisa e dal basso. Assume un significato, una potenza evocativa tutta diversa. Proprio in quest’ottica si sta mettendo in piedi un livello di socializzazione molto alto all’interno del movimento: gran parte del lavoro viene svolto nei centri di auto-formazione o nei momenti di scambio appositamente istituiti. Persino sul fronte, a Kobane, la sera i combattenti e le combattenti si ritrovano per fare un bilancio militare della giornata, per discutere delle nuove azioni, ma anche per continuare il lavoro di auto-formazione e di socializzazione.
Per concludere, sono d’accordo nell’affermare che si tratta di un’esperienza che non va mitizzata né tantomeno estrapolata dal proprio contesto di riferimento ed importata: occorre fare uno sforzo di comprensione in modo da sviluppare un dibattito politico, e non solo di cronaca o tifoseria, fino a cogliere gli interessanti spunti di riflessione che fornisce. Invece si può riscontrare spesso la tendenza a voler calare dall’alto, su un’esperienza estremamente peculiare a livello culturale, storico e politico, teorie e paradigmi altrettanto specifici, frutto di esperienze e contesti molto diversi, senza alcuna mediazione. Soltanto per la fretta di voler definire e così risolvere in un modo del tutto ideologico un fenomeno che meriterebbe invece di essere approfondito nella teoria così come nella pratica. Ognuno ricerca gli elementi più affini con la propria soggettività, in maniera più o meno strumentale, rischiando di fatto di dimenticare la peculiarità del movimento curdo. Un conto, però, è provare a fare delle analogie, un altro è adottare impostazioni ideologiche senza analizzare il contesto. E’ sbagliato cercare di legittimare i propri percorsi politici sulle spalle dei compagni curdi, i quali meriterebbero invece un appoggio sincero e concreto per la lotta che stanno portando avanti con tanto coraggio e determinazione. In sostanza, il punto della questione non è affermare se questa sia o no “la via”, bensì comprendere come e perché questa è la strada che hanno scelto di intraprendere i compagni laggiù, e credo che noi non possiamo fare altro che sostenerli per quello che rappresenta di rivoluzionario questa esperienza all’interno del focolaio medio-orientale, in nome dell’internazionalismo e dell’anti-imperialismo.
[1] http://www.uikionlus.com/di-david-l-phillips-legami-isis-turchia/
[2] http://www.uikionlus.com/prigionieri-isis-vogliamo-il-petrolio-dei-curdi-infedeli/
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