Se gli attacchi jihadisti a Parigi – e quelli sventati per ora in Belgio – concedono all’Unione Europea l’opportunità di rilanciare in grande stile la propria presenza militare offensiva in tutto il Medio Oriente, anche i paesi arabi sponsor delle organizzazioni fondamentaliste islamiche non stanno a guardare. Anche in questo caso la giustificazione è quella di doversi attrezzare nei confronti di movimenti jihadisti che le petromonarchie hanno sostenuto attivamente e che però sembrano ora diventate eccessivamente autonome, potenti e ingombranti mettendo a rischio la sicurezza e la stabilità di coloro che le hanno nutrite (di pochi giorni fa il primo attentato targato Isis contro le guardie di frontiera saudite).
E’ di queste ore la notizia che la Lega araba – coalizione eterogenea all’interno del quale coabitano paesi che fanno parte del “polo islamico” concorrente rispetto a Ue e Usa ma anche paesi filoccidentali – ha annunciato al Cairo che studierà la possibilità di creare una “forza d’intervento rapido”, cioè un corpo militare in grado di intervenire rapidamente in tutta l’area. Naturalmente con funzioni teoricamente “anti-terrorismo”.
Secondo una dichiarazione letta dal segretario generale della Lega, Nabil el-Arabi, ad una riunione ministeriale straordinaria in corso ieri nella capitale egiziana, la possibilità di formare una “forza d’intervento rapido araba per lottare contro il terrorismo” è conforme al Trattato arabo di difesa comune del 1950. El-Arabi ha esortato a tenere una riunione straordinaria del Consiglio di difesa arabo per esaminare i “meccanismi necessari” a creare questa “forza” d’intervento e i suoi presupposti “giuridici”.
Intanto le monarchie petrolifere del Golfo non hanno affatto gradito le parole ed i toni del leader del movimento sciita libanese Hezbollah, Hassan Nasrallah, nei confronti di Manama, duramente criticata per l’arresto e la detenzione di Ali Salman, leader del maggior blocco dell’opposizione Al Wefaq.
Bahrein, Emirati Arabi Uniti (Eau) e il Consiglo di Cooperazione del Golfo (l’alleanza regionale delle petromonarchie) hanno richiamato gli ambasciatori libanesi dei rispettivi paesi per formalizzare la protesta.
“Gli Eau condannano severamente le parole ostili ed infiammatorie che incitano alla violenza e al terrorismo e sono una fragrante violazione della politica interna del Bahrein” ha dichiarato Tarek Ahmad, sottosegretario agli Esteri degli Emirati. In un discorso televisivo tramesso venerdì scorso, il capo di Hezbollah aveva apertamente criticato le autorità del Bahrein per aver arrestato Ali Salman, leader del maggior blocco dell’opposizione Al Wefaq, con l’accusa di “promuovere cambiamenti politici violenti”. Il suo primo fermo, avvenuto il 28 dicembre é stato poi esteso per altri 15 giorni all’inizio di gennaio. Salman era stato arrestato per aver organizzato una manifestazione pacifica nella quale si protestava contro le elezioni di novembre – che Al-Wefaq con gli altri movimenti d’opposizione avevano boicottato – e chiedevano le dimissioni del governo e del parlamento.
La famiglia reale del piccolo emirato petrolifero é stata accusata dal leader del movimento di resistenza libanese di “portare avanti un progetto sul modello sionista” negli stati del Golfo, garantendo cittadinanza e posti di lavoro a musulmani sunniti di altre nazionalità per perseguire l’annichilimento e l’assorbimento della popolazione sciita che protesta contro il regime. L’accusa alle autorità del Bahrein – che negli anni ha potuto contare su un cospicuo sostegno politico e militare da parte dell’Arabia Saudita – di voler alterare artificialmente la realtà demografica del paese non é nuova. E’ stata ripetutamente mossa dalle opposizioni dell’emirato che, ad ampia maggioranza sciita, é governata dalla dinastia sunnita degli Al Khalifa.
Quella di Hezbollah nei confronti degli sciiti del Bahrein non è una difesa d’ufficio. Il movimento di resistenza libanese è impegnato da anni nella guerra contro le bande jihadiste sunnite in territorio siriano e negli ultimi mesi anche in territorio libanese. Dove gli attacchi e gli attentati contro le popolazioni sciite e alauite da parte di Al Nusra e altre organizzazioni sunnite si sono fatti sempre più frequenti e micidiali, come quando, nei giorni scorsi, due giovani libanesi imbottiti di tritolo si sono fatti esplodere in una zona di Beirut. Recentemente nella regione di Qalamoun, al confine con la Siria, l’Isis ha proclamato la nascita dello Stato Islamico di Qalamoun, dalle montagne di Zabadani a quelle di Halayem. Secondo i servizi segreti libanesi sarebbero già un migliaio i miliziani di al-Nusra e Isis entrati in Libano negli ultimi mesi, che si aggiungono ai fanatici indigeni già agli ordini di Al Baghdadi o di Al Zawahiri. «L’Arabia Saudita, dopo aver finanziato i gruppi sunniti estremisti per portare al collasso del governo di Assad in Siria, si ritrova oggi a dover cambiare strategia anche in Libano – ha spiegato nel corso di un’intervista a Il Manifesto l’analista palestinese Nassar Ibrahim – A monte i negoziati tra Iran e 5+1 e l’eccessiva forza dell’Isis, che si sta rivolgendo contro i suoi stessi creatori. Riyadh deve oggi far risalire in vetta il suo più stretto alleato in Libano, Saad Hariri, strumento saudita fin dalla guerra civile: la famiglia Hariri riceve da decenni ingenti finanziamenti, soldi con i quali Rafic Hariri, padre di Saad, ha creato un impero, costruito scuole e ospedali, gestito università».
«L’obiettivo è lo stesso di quello perpetrato in Siria: l’indebolimento dell’asse sciita che in Libano è rappresentato da Hezbollah. Eppure, nonostante gli sforzi, buona parte della popolazione libanese, non solo sciita, appoggia il Partito di Dio. Per questo, se prima Riyadh cercava di raggiungere il suo scopo sul piano politico, imponendo le nomine istituzionali (…), oggi agisce attraverso gruppi estremisti sunniti».
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