L’uomo dei segreti ferma la sua corsa, indirizzata ultimamente verso il Parlamento turco che sarà rinnovato ai primi di giugno. Così Hakan Fidan supercapo del Mıt, che aveva lasciato la guida dell’Intelligence per entrare in politica, annuncia di ritirarsi dal cimento. La scelta potrebbe essere stata presa di concerto col presidente Erdoğan, di cui Fidan è stato a lungo stretto collaboratore durante la leadership governativa e di partito. Ma i dubbi restano. Fino a non molto tempo addietro il responsabile dell’agenzia turca aveva stabilito la linea della trattativa con la componente kurda, sventolata dall’allora capo dell’Esecutivo quale escamotage per lenire le tensioni interne e superare l’impasse violenta che per trent’anni ha insanguinato il Paese. Un’apertura sancita tramite periodici colloqui, condotti dal 2009 e 2011 con incontri anche all’estero (Oslo) e nel supercarcere dov’è rinchiuso l’illustre detenuto Abdullah Öcalan, leader del Partito Kurdo dei Lavoratori. Incontri interrotti nell’estate 2011, a seguito di un agguato a militari turchi presso la città di Diyarbakır e di ritorsioni con bombardamenti sulla popolazione civile nel territorio attorno ad Hakkari. Un filo, comunque, non spezzato sebbene gli scenari fossero mutati con la crisi siriana.
Attorno agli sviluppi della medesima, per l’ambiguo ruolo giocato dai vertici dello Stato turco, per le scelte fatte da Erdoğan e dal fidatissimo ministro degli esteri Davutoğlu (dall’estate scorsa suo sostituto alla guida del governo) il Mıt era anche finito in un’inchiesta di un procuratore che indagava sui trasporti oltre il confine compiuti da alcuni Tir che risultavano inviati dall’Intelligence. In un reciproco scambio d’accuse l’area che fa capo a Fetullah Gülen, con un buon seguito fra i magistrati, ha, fra l’altro, additato il governo di scambi col jihadismo, mentre Erdoğan l’accusava di tramare contro la nazione creando fra giudici, giornalisti e poliziotti l’ennesima “struttura parallela”. Il sospetto d’un nuovo caso Ergenekon, dopo quello già disarticolato. Altre frizioni s’erano avute nel 2012 quando vennero alla luce, sempre per iniziative della stampa dell’area del movimento gülenista Hizmet, informazioni sulle infiltrazione del Mıt di strutture politiche kurde (Kurdistan Communities Union) che si relazionano al Pkk. Nonostante tali inciampi la duttilità di Fidan aveva permesso il mantenimento del tavolo di trattative, seppure i kurdi rimbracciassero le armi nella vasta area oltre il confine siriano dove agisce l’Isis.
Qualche decano del Parlamento turco commenta stupito la notizia del disimpegno di Fidan, facendo comunque notare che, essendo lui un Superman, avrebbe potuto offrire un migliore servizio alla nazione nella veste precedentemente ricoperta invece di diventare un semplice deputato. Eppure lo scaltro e diplomaticissimo capo del Mıt non sarebbe rimasto affatto un semplice politico. Per lui si ventilava l’incarico di ministro degli Esteri, una funzione che di fronte al personalismo erdoğaniano, al suo gioco su più tavoli proprio nell’infuocata situazione mediorientale, agli imbarazzanti giri di valzer che inanella da anni, forse neppure questo collaboratore di primo piano s’è sentito di ricoprire. Che la macchina politica del sultano perda amicizie di peso (Gülen) o pezzi pregiati (l’ex presidente Gül) è cosa consolidata e non è detto che non incrini le certezze dei suoi programmi. Oppure lo stop all’uomo dei segreti parte proprio dal ‘sultano kemalista’ che, fra amici, ex amici, neo nemici sviluppa un turbinio di situazioni volendo conservare una centralità che appare sempre più spericolata e ingombrante.
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