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Salviamo il refusnik Ruslan che rifiuta di andare a uccidere nel Donbass

Il giornalista ucraino Ruslan Kotsaba è stato arrestato a Ivano-Frankovsk, città dell’Ucraina occidentale, e rischia un processo per tradimento dello Stato.
Intorno al 20 gennaio scorso, Kotsaba, che lavora per il canale televisivo ucraino 112, aveva diffuso un video
nel quale dichiarava la sua indisponibilità a essere arruolato nelle truppe governative e invitava di fatto i suoi concittadini alla diserzione di massa.
Una dichiarazione che ha destato scalpore sia per la notorietà del giornalista sia perché l’Ucraina occidentale è percorsa da un vento sciovinista che arriva a riabilitare come eroi patrioti perfino i collaborazionisti nazisti.

Nel video, camminando veloce nella sua città natale, Ruslan dichiarava: «Preferisco andare in carcere che andare a combattere contro miei compatrioti nel Donbass». «Uso il fatto di essere conosciuto per dire ufficialmente che non sono disposto a ricevere nessuna chiamata alle armi, non importa se sarà la terza, quarta o quinta mobilitazione. Se andassi in guerra potrei uccidere i miei compatrioti, perché questa è una guerra civile. La mobilitazione generale è legale solo quando c’è una formale dichiarazione di guerra fra due paesi, ma non è così. Non c’è dichiarazione di guerra con la Russia, anche se l’Ucraina lo dice. Il codice penale stabilisce una pena da due a 5 anni per la diserzione. Ma per me è più facile andare in galera che uccidere compatrioti. Dobbiamo capire che quelli che vivono nell’Est capiscono che il governo di Kiev è niente e non vogliono stare sotto questo governo. So che mi accuseranno di essere agente di Putin ma suggerisco a tutti di disertare. Non è possibile che nel secolo XXI si faccia guerra e si uccida solo perché altri vogliono stare per conto loro. Spero che molti ascoltino e facciano come me. In Donbass non c’è l’esercito russo». E’ auspicabile una mobilitazione internazionale a suo favore.

 
 
La storia dei conflitti è percorsa da continui coraggiosi inviti alla diserzione. Al tempo della spedizione coloniale in Libia, nel 1911, il soldato di leva e muratore anarchico Augusto Masetti ferì un ufficiale al grido di «fratelli ribellatevi»; finì in manicomio, non vollero farne un martire. E nella Prima guerra mondiale furono migliaia i giustiziati per diserzione, e decine di migliaia i diffamati e umiliati (si veda la mostra fotografica www.centoannidiguerre.org di No War Napoli). Dopo cento anni, alcune autorità italiane sembrano avere l’intenzione di riabilitare come caduti di guerra quelle vittime della ferocia. Si è pronunciato a favore di questa scelta di civiltà anche il vescovo ordinario militare monsignor Santo Marcianò che ritiene la loro fucilazione «un atto di violenza ingiustificato e da condannare».
 
Pochi anni dopo la fine del Grande macello, il pacifista tedesco Ernest Friedrich che aveva rifiutato di arruolarsi e per questo aveva conosciuto manicomio e prigione, nella introduzione al suo potente libro fotografico Guerra alla guerra (1924) scrive: «Meglio affollare le carceri, gli istituti di pena e i manicomi di tutto il mondo piuttosto che uccidere e morire per il capitale. (…) Ripetete queste parole: “Io mi rifiuto!”; mettetele in pratica, e la guerra in futuro sarà impossibile. (…) E voi donne, non lasciate che i vostri uomini vadano al fronte! (…) Donne di tutto il mondo unitevi!». Ricordiamo anche Marcondiro, di F. De André: «Ci salverà il soldato che non sparerà (…)».

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