Spesso siamo obbligati a cercare di interpretare la realtà tentando di leggere tra le righe di certi fenomeni, di individuare tendenze che altrimenti sarebbero celate dietro un muro di disinformazione, di cogliere segnali che sfuggono – per distrazione e dolo – alla stampa mainstream.
Poi, magari, arriva una conferma improvvisa da una fonte ‘autorevole’ che rende giustizia a tali sforzi. Come in questo caso.
La Turchia non considera una sua priorità la lotta contro lo Stato islamico (Is) e questa tolleranza permette ai jihadisti di muoversi liberamente dal suo territorio verso la Siria e viceversa. L’accusa arriva nientemeno che da James Clapper, il capo dell’intelligence degli Stati Uniti, proferita di fronte alla commissione difesa del Senato a Washington. “Io penso che la Turchia abbia altre priorità e altri interessi” ha detto il capo dei servizi segreti statunitensi. “I sondaggi della pubblica opinione in Turchia – ha continuato Clapper – non mostrano l’Isis come una minaccia primaria”. In effetti un quinto dei ‘sondati’ da diversi istituti demoscopici in quel paese è addirittura solidale con i jihadisti che non a caso hanno eletto Ankara come propria base logistica dove reclutare combattenti, rifornirsi di armi, vendere il petrolio estratto nei territori sotto il loro controllo, curare i propri feriti. Spesso con la tolleranza o addirittura l’attiva collaborazione dei servizi di intelligence turchi e delle forze armate.
L’effetto dell’approccio turco, secondo il funzionario statunitense, è quello di creare un contesto “permissivo” per il reclutamento dei “foreign fighter” che si recano in Siria per unirsi all’Is. “Così qualcosa come il 60 per cento di questi combattenti stranieri trovano la loro strada verso la Siria attraverso la Turchia”. Clapper ha anche ammesso che altri governi del Medio Oriente si sono mostrati in un primo momento riluttanti a unirsi alla coalizione anti-Isis, ma la “brutalità selvaggia” jihadista “ha avuto un effetto galvanizzante sull’opinione pubblica nella regione mediorientale” e ora c’è più volontà di unirsi agli Usa nello sforzo bellico e nella condivisione di informazioni d’intelligence.
Fatto sta che Turchia e Stati Uniti inizieranno ad addestrare ed equipaggiare migliaia di combattenti della cosiddetta “opposizione siriana” già il prossimo 1 marzo, nell’ambito dell’intesa firmata il 19 febbraio scorso da Ankara e Washington. “Posso dire che inizieremo il 1 marzo”, ha affermato ieri il portavoce del ministero degli Esteri turco, Tanju Bilgic, citato dal quotidiano Hurriyet, Secondo il memorandum d’intesa siglato dall’Ambasciatore Usa ad Ankara John Bass e dal sottosegretario agli Esteri turco Feridun Sinirlioglu, Ankara metterà a disposizione un numero di addestratori militari pari a quello degli Stati Uniti. Una sottolineatura che sta a dimostrare il desiderio da parte turca di controllare a pieno la missione dei ribelli siriani che, ha precisato il ministro degli Esteri turco, Mevlit Cavusoglu, “combatteranno contro lo Stato islamico e contro il regime siriano”.
Più di recente, il 25 febbraio scorso, il ministro per l’Europa di Ankara, Volkan Bozkir, ha dichiarato che la concessione a Washington dell’uso della base aerea turca di Incirlik, chiesta dagli Stati Uniti per potenziare l’offensiva militare internazionale contro l’Is, dipenderà dai risultati ottenuti dal programma di addestramento. Un segnale più che esplicito nei confronti della Casa Bianca, che deve fare i conti anche con le pretese di un altro ‘alleato’ assai esigente. Il governo del Qatar ha criticato gli Stati Uniti accusandoli di non fare abbastanza contro lo Stato Islamico ma in realtà sottolineando la necessità di colpire non solo le postazioni dei jihadisti ma anche le unità delle forze militari siriane, ipotesi sulla quale invece nell’amministrazione statunitense non c’è unanimità.
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