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Turchia. Sciopero generale, le piazze gridano “Erdogan assassino”

Le decine di migliaia di persone – curdi, sindacalisti, attivisti dei partiti della sinistra radicale e militanti della sinistra rivoluzionaria turca – che erano scesi in piazza subito dopo il massacro di sabato sfidando la morte e la repressione sono presto diventate centinaia di migliaia. Lo slogan delle manifestazioni è sempre lo stesso: “Erdogan Assassino! Erdogan vattene!”.

Il governo punta il dito contro alcune cellule dello Stato Islamico – uno degli attentatori, si dice, era il fratello di uno dei kamikaze che fece strage a Suruc a luglio – ma i media di regime continuano a indicare come responsabili della vile strage anche lo stesso Pkk, che avrebbe colpito i suoi stessi sostenitori per destabilizzare il paese e punire i vertici del Partito Democratico dei Popoli giudicato troppo moderato e poco incline a seguire la strategia della guerriglia. Ma le paranoiche accuse dei giornali embedded fanno breccia solo nei settori della popolazione turca avvelenati dalla propaganda sciovinista e razzista dell’estrema destra e dei settori islamisti più reazionari. Nonostante la ferrea censura imposta ai media di regime e gli arresti di altri giornalisti di bocca in bocca corre un’accusa: “è strage di stato”.
Che il regime abbia lasciato fare gli attentatori dell’Isis; che i kamikaze siano stati manovrati dal “deep state”, lo stato profondo ereditato dai tempi più bui del regime kemalista; che a piazzare gli ordigni (formati da cinque chili di tritolo e dalle micidiali biglie d’acciaio) piazzati in mezzo alla folla che si radunava ad Ankara per partecipare alla marcia indetta dai sindacati e dai partiti di sinistra siano state le barbe lunghe dell’intelligence erdoganiana l’accusa non cambia: “la strage è di stato”.
Anche se il grosso delle vittime – il triste conteggio è ormai arrivato a quota 137 e potrebbe aumentare ancora, visto l’alto numero di feriti in condizioni gravi – apparteneva all’Hdp di Demirtas, moltissimi sono gli attivisti e dirigenti dei partiti di sinistra curdi e dei sindacati falciati dalle bombe: del Partito del Lavoro, del partito socialista Odp, del Kesk e del Disk. Anche undici affiliati al moderato Partito Repubblicano del Popolo (Chp), il partito kemalista che rifiuta di far veramente fronte comune con le sinistre per scacciare dal potere il ‘sultano’, sono stati uccisi dalle bombe di Ankara.

A conferire alla protesta un carattere corale dopo le prime manifestazioni ultramilitanti, l’unico in grado di impensierire Erdogan e la sua cupola, sono stati i sindacati di classe. Il Disk e il Kesk, insieme agli ordini dei medici, degli ingegneri e degli architetti hanno indetto due giorni di sciopero generale contro il governo e il terrorismo di stato. Le strade delle città turche grandi e piccole si sono riempite di cortei, di presidi, di manifesti, di scritte, dai balconi pendono drappi neri in segno di lutto e di sfida contro il regime. I medici sfilano con i loro camici, gli avvocati si siedono a centinaia negli ingressi dei tribunali, i lavoratori sfilano con i vessilli delle loro organizzazioni.
Gli slogan contro l’Isis diventano, sono slogan contro gli islamisti al potere, e viceversa. La rabbia si mischia al dolore, lo sconcerto all’indignazione.
Le forze di sicurezza continuano a comportarsi come i cani da guardia del regime: attaccano i cortei con i lacrimogeni e gli idranti nelle città dell’ovest turco e con le pallottole vere nelle regioni curde; arrestano manifestanti e militanti delle organizzazioni curde e di sinistra. La mattanza di Ankara non ha cambiato proprio nulla, gli apparati dello stato non esprimono alcuna sensibilità, alcuna empatia neanche di fronte a tanto sangue innocente versato in nome della stabilità del regime. Anche se le autorità indicano l’Isis come responsabile della strage l’ordine rimane combattere, reprimere, schiacciare l’insorgenza curda e le manifestazioni per la democrazia e la libertà.
Dove non arrivano le bombe piazzate dai jihadisti o dai loro padrini arrivano le pallottole sparate dai militari di Ankara. Tra le ultime vittime della repressione del regime in Kurdistan ci sono anche due bambine: Helin Sen, 9 anni, ammazzata a Diyarbakir da tre pallottole che l’hanno colpita alla testa; Tevriz Dora, di soli cinque anni, è stata colpita alla testa da un proiettile sparato dalla polizia mentre era in braccio alla madre.
L’Occidente che si mobilitava al grido di ‘Je suis Charlie” è sordo, lo stillicidio di morti in Turchia e in Kurdistan non sembra meritare né lacrime né attenzione.

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