Sul valzer della diplomazia, con cui da mesi il presidente afghano Ghani corteggia, ricambiato, l’omologo pakistano Sharif, sta cadendo la tegola dei rifugiati. Dallo scorso gennaio circa 60.000 profughi afghani sono rientrati dal Pakistan. Motivo: il risentimento nazionalista scatenato dal massacro nella scuola di Peshawar compiuto da un gruppo di Tehreek-e Taliban. Del copioso commando (27 persone secondo l’Isi pakistana) nove sono stati uccisi, sei sono stati arrestati nella zona di Peshawar, altri sei in Afghanistan, dei restanti finora si son perse le tracce. Ci sono invece ampi sospetti che Mullah Fazlullah, considerato la mente ispiratrice degli attentati dei TTP, si trovi della provincia afghana di Kunar. Per questo il nuovo capo dell’Isi Rizwan Akhtar ha richiesto ufficialmente a Ghani e al premier in pectore Abdullah di collaborare per la cattura. Nel frattempo, più per spinta degli apparati di sicurezza che del presidente pakistano, è in atto un controesodo che non si registrava da decenni.
Sdegno e reazione – Al clima di paura e risentimento seguiti alla strage della scuola dei figli di militari l’establishment pakistano ha risposto con una legge antiterrorismo che prevede la creazione di ulteriori reparti d’intervento armato, la regolamentazione delle madrase, l’uso di tribunali speciali per rapidi processi ai sospettati e tout-court il rimpatrio di rifugiati afghani. La normativa non fa distinzione fra profughi registrati e illegali, così la scure s’è abbattuta su tutti. Le contraddizioni sono palesi: molte famiglie partono alla ventura senza sapere se avranno sistemazione nel Paese d’origine che, al di là delle buone intenzioni di Ghani, non presenta alcun piano economico degno di questo nome e già vive la miserevole macchia di campi profughi interni. Fra i rimpatriati ci sono giovani nati e cresciuti negli shelter pakistani, una comunità enorme (2.6 milioni di persone), la più numerosa al mondo inserita in una nazione straniera. Eppure una parte di essa non è registrata nelle liste dell’Unhcr, abita lì clandestinamente e si tratta d’un numero nient’affatto limitato.
Profughi per fame – L’incremento di queste presenze negli ultimi tempi è dovuto più a fattori alimentari che bellici. Alla cronica incertezza d’una nazione fantasma, dissanguata da occupazioni militari che favoriscono un apparato locale profittatore e corrotto. Un Paese spolpato nelle risorse da un neocolonialismo di ritorno che vede in prima fila potenze mondiali e regionali. Gli aiuti internazionali, su cui la casta politica di Kabul ha sempre lucrato, ormai registrano una diminuzione dei flussi per altre crisi mondiali (Siria, Iraq) concorrenziali rispetto alla realtà afghana. Nel 2014 i fondi per i rifugiati locali sono scesi a un quinto: da 1.200.000 dollari a soli 250.000. Fra le proposte rivolte agli accampati il governo pakistano introduce una carta della validità di un anno che funga da prova di registrazione; gli afghani ne chiedono l’estensione sino al 2018 o 2019. C’è mercanteggiamento sul tema, una componente del governo pakistano non vuole offrire appigli simili a questa carta, che regolamenta ma al tempo stesso istituzionalizza l’accoglienza, puntando invece a impedire nuovi ingressi e ad ampliare i rimpatri.
Braccio di ferro sui rifugiati – E’ improponibile pensare a rimpatri di massa che destabilizzerebbero una già fragile condizione sociale che la Repubblica afghana non riesce a controllare. L’Unhcr calcola che il Paese potrebbe sopportare al massimo 170.000 profughi, sebbene il budget per l’accoglienza s’aggiri sulle 50.000 unità e nel 2014 le cifre siano state più basse per le criticità dovute a instabilità politica e insicurezza. Sulla testa dei rifugiati si sta praticando un braccio di ferro a distanza che riguarda interessi di parte, a Kabul come a Islamabad. Hamid Karzai, ad esempio, infastidito da talune mosse interne di Ghani, che pongono ostacoli al rapporto untuoso e corruttivo fra il ceto politico e i funzionari statali, non s’è lasciato sfuggire l’occasione per criticare la nuova dirigenza. Ha rinfocolato il nazionalismo pashtun contro la linea d’apertura verso il mai amato vicino che, con la vicenda profughi, rinnova l’affronto alle etnìe afghane. Da parte sua Sharif, per placare critiche al lacunoso piano sicurezza negli ultimi mesi infilzato più volte dai guerriglieri Tehreek, non ha frenato le smanie nazionaliste di casa verso un popolo da sempre considerato di rango inferiore.
Xenofobìe sparse – I rifugiati afghani senza documenti rappresentano di per sé una minaccia al controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine pakistane. Una di queste zone è il Khyber Pashtunkhwa, dove vivono 900.000 fuorusciti (altri gruppi consistenti sono in Baluchistan e nel Panjab). In quei campi la polizia compie raid, ferma e arresta centinaia di sospettati, operando a metà strada fra la prevenzione anti terroristica e l’espulsione xenofoba. Anche la regione di Sindh, la seconda più popolosa del Pakistan, dove si raccolgono le tensioni della numerosa componente staccatasi dall’India, è una ferrea sostenitrice del piano di rimpatrio dei rifugiati. Il motivo è il reiterato rapporto di protezione che i talebani pashtun riceverebbero in alcuni campi profughi. Ma la questione è controversa: alle accuse della politica locale gli attivisti umanitari rispondono che la stretta degli amministratori di Karachi si basa su voci più che su certezze; la realtà dei rifugiati e quella del combattentismo talebano talvolta s’intrecciano ma costituiscono filoni a se stanti. E bloccare il flusso dei profughi non scioglie i nodi di terrorismo e insicurezza.
Crisi sistemica più che umanitaria – La proposta d’un rimpatrio volontario da parte afghana è una tendenza più morbida presente fra i pakistani e fra gli osservatori c’è chi sostiene che il pragmatismo volto a onorare il patto fra le due nazioni, senza scivolare verso la chiusura delle frontiere, sia una mossa praticabile. Foriera del proseguimento d’un rapporto appena scongelato, utile per il bene di due comunità sommerse dai problemi. Quello dei rifugiati è legato a risvolti economici oltre che politici. La realtà parla chiaro. Senza lavoro, con scarse capacità professionali, e con quelle acquisite magari impraticabili, con un’ampia prole da sfamare molti capifamiglia dei gruppi di profughi riescono a vivere solo se foraggiati da fondi esterni. Non si tratta di crisi umanitaria bensì di crisi di progettazione e sviluppo. A Kabul prima che a Islamabad. L’impegno umanitario si concentra e offre risposte rapide, ma la situazione dei campi afghani che persiste da trent’anni, produce una dipendenza senza sbocchi. Crea vite sospese, in perenne attesa. L’unica domanda è dove procurare fondi. Fra le potenze regionali donatrici – India, Iran, Arabia Saudita – solo quest’ultima può continuare a elargire denaro. Sebbene le contropartite politiche, palesi e occulte, siano sempre dietro l’angolo.
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