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I Balcani: la Jihad nel cortile di casa dell’Europa

La notizia di oggi è che la polizia ha arrestato tre persone, in provincia di Torino ma anche in Albania con l’accusa di essere reclutatori e miliziani dell’Isis, mentre perquisizioni sono state effettuate a carico di sospetti simpatizzanti dell’Isis in Piemonte, Lombardia e Toscana.

Gli arresti sono scattati contro due cittadini albanesi, zio e nipote. Il primo è residente in Albania mentre il secondo vive in provincia di Torino, mentre il terzo arrestato, è un ventenne cittadino italiano di origine marocchina. Quest’ultimo viene accusato di essere l’autore del documento di propaganda dell’Isis, un testo di 64 pagine scritto in italiano, apparso di recente sul web e intotalato “Lo stato islamico, una realtà che ti vorrebbe comunicare”.

Diventa difficile, a questo punto, non mettere in connessione questa notizia con un contesto regionale più ampio e che investe direttamente il cortile di casa dell’Unione Europea, ovvero i Balcani.

Il Ministro degli Esteri albanese, Ntitmir Bushati,  aveva affermato nell’ottobre scorso che in alcune zone del paese erano presenti individui addestrati a compiere atti di terrorismo. Le zone individuate erano quelle dei distretti di Librazhdi e di Elbasan, dove sarebbero presenti numerosi nuclei salafiti e alcuni imam che cercano di radicalizzare i giovani. In certi casi i jihadisti locali fornirebbero rifugio temporaneo a miliziani provenienti dai paesi limitrofi che fanno scalo in Albania per poi imbarcarsi su voli per Istanbul con destinazione finale Siria. Non solo. Secondo un documento dell’Ispi (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), “l’Albania risulta poi essere punto di partenza anche per alcuni jihadisti europei che utilizzano l’Italia come luogo di transito”. Sempre secondo fonti locali sarebbero due le vie battute: una via mare, su navi appartenenti a privati albanesi che attraccherebbero nel porto di Durazzo. L’altra via è quella aerea; i volontari partirebbero da aeroporti italiani secondari per raggiungere Tirana e dopo alcuni giorni di sosta, proseguirebbero per la Turchia e da lì, come noto, verso il teatro di guerra in Siria e Iraq.

Nel settembre del 2014 in Bosnia sono stati arrestati 16 jihadisti tra cui Bilal Bosnic, un predicatore piuttosto noto nel mondo islamico più radicale. Gli arrestati sono stati accusati di aver reclutato, organizzato e finanziato il trasferimento di jihadisti verso la Siria e l’Iraq per combattere nelle file di gruppi terroristi quali dell’Isis. Nelle perquisizioni sono spuntate fuori armi, munizioni, attrezzature militari, tessere sim, computer e altre apparecchiature informatiche.
Il predicatore Bilal Bosnic era noto anche in Italia per i sermoni di incitamento alla jihad in città come Roma, Siena, Como, Pordenone, Cremona, Bergamo.
L’operazione in Bosnia – denominata operazione “Damasco”, ha rivelato l’esistenza di una rete terroristica radicata sul territorio della repubblica ex jugoslava “liberata” dalla Nato, quella stessa Nato che nel 1995 bombardò soprattutto le postazioni serbo-bosniache e sostenne la comunità musulmana (circa il 40%) e croata contro quella serba. Da allora la Bosnia è praticamente commissariata dalla Nato e dall’Unione Europea che per anni hanno tollerato e agevolato la penetrazione di jiahdisti in questa enclave della periferia d’Europa. Un reportage di Lettera 43 racconta che l’influenza fondamentalista islamica nella capitale Sarajevo appare ancora relativa. “Donne e ragazze musulmane escono la sera, bevono alcol e fumano senza problemi. Mi sembra difficile”, spiega agli inviati un giornalista di origini serbe, “che qui a Sarajevo attecchisca il radicalismo islamico”. Ma la situazione è diversa nelle città bosniache come Srebenica e Tuzla, dove, secondo alcuni, sarebbero sorti campi di addestramento per jihadisti da spedire in Siria e Iraq o sugli altri fronti della jihad. La cosa non dovrebbe sorprendere perchè negli anni Novanta, in Bosnia, erano arrivati centinaia di combattenti islamici – molti dalla Cecenia o dal Maghreb– per partecipare alla guerra civile contro i serbi e sostenuti dalla Nato che agevolò in ogni modo l’afflusso di jihadisti nel teatro balcanico, in Bosnia come in Kosovo e Albania. I finanziamenti erano assicurati soprattutto dal network saudita (inclusa Al Qaida) e dalla Turchia. Il flusso e poi l’insediamento in loco degli jihadisti, è stato agevolato da Mustafa Ceric, il gran muftì di Sarajevo sino al 2012, e da Alia Iztbegovic, l’ex presidente bosniaco sostenuto economicamente, politicamente e militarmente dalla Nato.

Ma una operazione analoga è stata condotta dalla Nato (Usa e Ue con pari responsabilità) anche nel Kosovo. Anche qui i bombardamenti della Nato contro la Serbia hanno spianato il terreno alla secessione del paese a maggioranza albanese e musulmana. Nei fatti si è costituita una enclave fuori controllo dove i gruppi jihadisti hanno trovato lo spazio per organizzarsi. Il governo del Kosovo solo recentemente – anche a causa del cambio di alleanze degli Usa e degli europei nello scenario mediorientale – è corso ai ripari.

Ad agosto dello scorso anno una operazione della polizia del Kosovo aveva portato in carcere 40 sospetti jihadisti (mentre altri 17 sono risultati irreperibili). Altre tre erano stati arrestati a giugno e altri 11 arrestati sette mesi prima. Alcuni sono molto giovani, nati addirittura nel 1994 e molti hanno meno di 30 anni. Ai giovani disoccupati kosovari vengono offerti fra 20mila e 30mila euro per andare a combattere con i jihadisti dell’Isis in Siria e Iraq ha denunciato pochi giorni fa il segretario della comunità islamica in Kosovo, Resul Rexhepi. Il Parlamento del Kosovo ha approvato pochi giorni una legge che vieta ai propri cittadini di partecipare a conflitti all’estero nel tentativo d’impedire ai suoi giovani di andare a unirsi ai gruppi jihadisti in Siria o in Iraq. La norma prevede fino a 15 anni di carcere per chiunque violi il divieto di prendere parte a conflitti armati all’estero. Il ministro dell’Interno di Pristina stima che circa almeno 300 persone dal Kosovo si siano recate a combattere insieme alle milizie dello Stato islamico in Iraq e Siria (Isis).

Mentre tutti gli sguardi, le attenzioni e le flotte militari convergono sulla Libia, le cancellerie occidentali evitano di rendere conto dei danni che hanno provocato negli ultimi venti anni anche nel vicino est, alle frontiere della stessa Unione Europea. La distruzione della federazione jugoslava, perseguita sistematicamente dalla Germania prima e da Usa e Unione Europea poi, ha consentito la nascita di enclavi out of control nei Balcani, zone dove i finanziamenti concorrenti di Turchia e Arabia Saudita hanno riprodotto scenari conflittuali e alleanze definitesi anche in Medio Oriente. Ma portandole vicino ai confini, anzi dentro il cortile di casa.

 

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