Il giornalista e Premio Pulitzer Seymour Hersh demolisce quella che a molti era sembrata la grande menzogna, ossia la versione ufficiale dell’uccisione di Osama Bin Laden. Già il modo con cui il cadavere era stato frettolosamente gettato in mare, ufficialmente per evitare pellegrinaggi alla tomba e per rispettare il rito islamico che vuole i cadaveri seppelliti entro il tramonto, era parso quantomeno sospetto.
Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, “ha mentito sull’operazione per uccidere Osama bin Laden” e “nascosto il ruolo delle forze speciali pachistane per prendersi tutti i meriti”. E’ questa un parte dell’accusa alle autorità stauTnitensi esposta da Hersh in un articolo sul London Review of Books. L’articolo esce a quattro anni di distanza dal raid condotto ad Abbottabad. Secondo il giornalista, Obama si sarebbe affrettato ad annunciare al mondo la morte di Osama Bin Laden, al contrario degli accordi presi con i pachistani, creando confusione tra i funzionari dell’intelligence poi costrett a sostenere la ricostruzione dei fatti confezionata da Obama. “Mentire fa parte del modus operandi degli Stati Uniti” ha scritto Seymour Hersh, noto per le sue inchieste, il quale ha basato le sue accuse su alcune fonti statunitensi, tra cui “un alto funzionario dell’intelligence in pensione”.
Secondo l’ex giornalista del New York Times, che aveva già accusato Obama nel 2013, definendo la sua versione dei fatti “una grande bugia”, i pachistani tenevano Osama Bin Laden prigioniero nel compound di Abbottabad da anni, prima di negoziare con gli statunitensi i termini dell’operazione per uccidere il leader di Al Qaida. La Cia era venuta a sapere del luogo dove si trovava non da un “lavoro di intelligence” e d un spia dentro Al Qaida, come sostenuto dagli statunitensi dopo il raid, ma grazie a un funzionario dell’intelligence pakistana, che sperava così di ottenere la taglia di 25 milioni di dollari.
Nel suo pezzo, Hersh fornisce una spiegazione alternativa del raid stesso e dell’annuncio del presidente Obama dell’uccisione di Bin Laden. In primo luogo, fu un ufficiale dell’intelligence pakistana ad entrare nella ambasciata statunitense ad Islamabad e ad offrire informazioni su dove si trovasse Bin Laden nel mese di agosto del 2010, in cambio voleva i 25 milioni di dollari di ricompensa. L’amministrazione Usa quindi cercò conferme da alti funzionari pakistani e la prova del DNA che l’uomo all’interno del complesso fosse Bin Laden. Ci furono poi lunghe trattative tra gli Stati Uniti e i pakistani sui termini del raid. Insieme con il denaro, gli Stati Uniti avrebbero offerto altre concessioni se il Pakistan avesse collaborato, ma soprattutto se fosse rimasto in silenzio sulla versione ufficiale della missione.
Un pakistano con stretti legami con il gruppo dirigente dell’ISI (i servizi segreti pakistani) ha rivelato a Hersh che “c’era un affare con i vostri ragazzi in alto. Eravamo molto riluttanti, ma doveva essere fatto – non per arricchimento personale, ma perché tutti i programmi di aiuti americani ci avrebbero tagliato fuori. I vostri superiori hanno detto che se non avessimo permesso il radid potevano anche morire di fame e l’ok è stato dato mentre il direttore generale dell’Isi, Ahmed Shuja Pasha era a Washington. L’accordo non era solo per tenere i rubinetti aperti, ma Pasha è stato detto che ci sarebbero più chicche per noi”.
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