I giornali scrivono, a proposito di certe notizie, che in Europa starebbe tornando l’atmosfera da ‘Guerra Fredda’. L’immagine è suggestiva, ma inadatta, visto quanto è cambiato il mondo dalla fine degli anni ’80 e dalla scomparsa del “campo socialista”. Lo scenario è più simile a quello che precedette – e scatenò – la Prima Guerra Mondiale: molte potenze, grandi e meno grandi, in competizione feroce tra loro, spesso coalizzate in grandi blocchi geopolitici regionali, almeno quelle che non hanno una stazza tale da consentir loro di fare da soli. E di diverso rispetto alla ‘Guerra Fredda’ ci sono due fatti non proprio secondari. Intanto non esiste più un campo antagonista, caratterizzato da un regime politico ed economico e da una base ideologica contrapposti a quello capitalista. E poi mentre prima la ‘cortina di ferro’ divideva l’Europa più o meno a metà, da tempo ormai l’orso russo ha ritratto i suoi artigli di parecchie centinaia di chilometri, ed il terreno perso dall’allora Unione Sovietica e dall’influenza di Mosca è stato completamente annesso all’Unione Europea sul fronte politico-economico e alla Nato su quello militare. Basta guardare una mappa dell’estensione dell’Alleanza Atlantica per rendersi conto che la Russia è praticamente circondata da paesi che fanno parte dell’alleanza nata in funzione anticomunista e sopravvissuta – diremmo rinvigorita – dalla teorica scomparsa dell’avversario.
Certo, la novità di questi ultimi anni è l’escalation impressa dalla Nato nei confronti di Mosca, che ha portato ad una militarizzazione progressiva dello spazio europeo, allo schieramento di nuove truppe ‘a difesa’ dei paesi minacciati da Mosca (ma dall’altra parte della nuova cortina di ferro la vedono in maniera un po’ diversa) e all’aumento dei toni minacciosi da parte dei due contendenti.
In attesa di capire se i paesi dell’Ue seguiranno gli Stati Uniti in questo folle scontro con la Russia – che aumenta il grado di controllo di Washington sullo spazio europeo frustrando le aspirazioni di Bruxelles a diventare una potenza militare indipendente, o almeno autonoma dal competitore transatlantico – notizia di queste ore è che le massime autorità militari statunitensi hanno proposto al proprio governo di aumentare significativamente il numero di soldati presenti in Europa e di perfezionare l’addestramento delle truppe in modo che siano pronte “ad affrontare le potenziali minacce provenienti dalla Russia”. È quanto sarebbe emerso, almeno stando alle indiscrezioni pubblicate dal Wall Street Journal, durante un forum che si è tenuto nel fine settimana (in concomitanza con il 26° anniversario della caduta del Muro di Berlino) a Simi Valley, in California, tra diversi leader dell’Esercito e della Difesa, che “condannando le aggressioni militari della Russia” hanno avvertito che gli Stati Uniti non devono lasciare che la cooperazione di Mosca con l’Occidente sulla Siria faccia dimenticare il conflitto in Ucraina. Il timore dell’apparato militar-industriale a stelle e strisce, evidentemente, è che in cambio di un accordo con Mosca sullo scenario siriano, nel quale Washington è in crescente difficoltà, Obama conceda alla Russia una diminuzione della pressione militare, economica e diplomatica incrementata a livelli esponenziali dopo la dura quanto tardiva reazione di Putin al golpe sciovinista e filoccidentale in Ucraina.
Il generale Philip Breedlove, comandante in capo delle forze della Nato in Europa, ha detto che vorrebbe vedere più brigate, in rotazione, impegnate in Europa e che una decisione sulla proposta, che sarà presentata dal Pentagono, sarà presa “nei prossimi due mesi”. Sempre che si riesca a superare lo scoglio del consenso del presidente Barack Obama e del Congresso.
Durante la conferenza di Simi Valley il comandante del quartier generale dell’esercito statunitense Mark Milley avrebbe sostenuto la necessità di inviare truppe aggiuntive in Europa. Attualmente, l’esercito statunitense ha schierate in Europa due brigate composte da 3.500 soldati ciascuna (fuori dall’organico targato Nato).
Secondo Milley, l’esercito statunitense sta perfezionando l’addestramento in modo da potersi opporre a diverse minacce da parte della Russia, tra cui la guerra ibrida, che include strategie non convenzionali. Queste misure, secondo Milley, sono necessarie “per prevenire nuovi conflitti in Europa”. Secondo Milley, nel regime di rotazione si propone di aggiungere altre unità, tra cui “unità di elicotteri da combattimento, task force di tecnici e brigate di artiglieria”.
Ma non basta. Qualche giorno fa il Pentagono ha fatto sapere che manderà presto più navi da guerra e sottomarini da combattimento nelle acque del Mediterraneo per “contrastare il rafforzamento della flotta russa nell’area, il più intenso dalla fine della Guerra fredda”. Lo ha dichiarato al Financial Times l’ammiraglio statunitense John Richardson, secondo cui l’obiettivo è quello «di mantenere un equilibrio di forze». Una situazione e una parola d’ordina, questa sì, che richiama assai lo scontro andato in scena dalla fine del secondo conflitto mondiale fino alla fine degli anni ’80 del secolo scorso. Nei giorni scorsi i media occidentali hanno lanciato l’allarme spionaggio nei confronti di Mosca, accusata di aver inviato dei suoi vascelli da guerra dotati di batiscafi di profondità sospettosamente troppo vicini agli ‘hub’ di cavi per le telecomunicazioni sistemati sul fondo dell’oceano. Lo stesso comandante della marina Usa lascia intendere quanto nel Pacifico la sfida per Washington sia doppia. Da una parte il rafforzamento delle attività russa (in realtà provocato proprio dal maggiore schieramento militare statunitense); dall’altra il confronto con la marina di Pechino: pochi giorni fa il cacciatorpediniere Usa “Uss Lassen” ha violato le acque rivendicate dalla Cina vicino ad un’isola artificiale creata nell’arcipelago conteso delle Spratly. Anche in questo caso, l’ammiraglio Richardson ha espresso la sua preoccupazione nei confronti del fatto che in un eventuale negoziato strategico planetario con la Russia gli Stati Uniti perdano ancora posizioni. Un riconoscimento della propria debolezza politica e strategica, quella del capo militare statunitense, alla quale ovviamente Washington è tentata di rimediare attraverso una risposta militare foriera di inquietanti sviluppi.
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