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Il 7 giugno voto storico, la Turchia al bivio

Manca ormai meno di una settimana alle fatidiche elezioni politiche in Turchia, che si prospettano tra le più imprevedibili dell’ultimo decennio e cruciali per i piani di Recep Tayyip Erdogan. La posta in gioco è infatti, soprattutto, la progettata trasformazione dell’attuale sistema parlamentare – già dal carattere fortemente escludente, autoritario e restrittivo – in un regime “presidenziale alla turca” sponsorizzato dal capo dello Stato, l’islamista e reazionario Recep Tayyip Erdogan. Un sistema nel quale la già poco più che formale separazione dei poteri sarebbe ridotta al lumicino, concentrando il potere nelle mani del super-presidente e del suo entourage.

Per consegnare a Erdogan una maggioranza tale da poter controriformare la costituzione, però, il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) dovrebbe ottenere almeno 330 dei 550 seggi che compongono il parlamento di Ankara.
Anche se i due partiti di opposizione, i socialdemocratici del Chp (Partito Repubblicano del Popolo) e i nazionalisti di destra dell’Mhp (Partito del Movimento Nazionalista) sono dati in leggera ascesa nei sondaggi, è il possibile raggiungimento del 10% da parte del Partito Democratico dei Popoli (Hdp) ad impensierire Erdogan e i suoi. La formazione politica, formata dalla sinistra curda e da alcuni gruppi della sinistra ecologista e radicale turca anche in rappresentanza di altre minoranze, potrebbe infatti superare la draconiana soglia di sbarramento e fare così irruzione in parlamento, sottraendo agli islamisti un consistente numero di seggi e allontanando così i sogni di gloria del ‘sultano’. In passato gli esponenti delle formazioni politiche curde si erano sempre presentati alle elezioni politiche come ‘indipendenti’, ottenendo in alcuni casi l’elezione, ma questa volta l’Hdp ha deciso di presentarsi come partito chiedendo non solo il voto degli abitanti delle regioni curde ma anche ai settori scontenti della società turca, e soprattutto a quegli attivisti e manifestanti che negli ultimi due anni si sono mobilitati nell’ambito del movimento ‘Occupy Gezi’ e di altre forti contestazioni al carattere islamista, autoritaria e corrotto del regime di Ankara.
L’eventuale superamento della soglia del 10% da parte del Partito Democratico dei Popoli – dato dai sondaggi tra il 9.5 e l’11.5% dei consensi – potrebbe sottrarre al partito di governo ben 50 seggi, impedendo così all’Akp non solo di riformare la Costituzione ma forse addirittura di disporre di una maggioranza dei seggi che consenta all’attuale premier, Ahmet Davutoglu, di formare un esecutivo monocolore. Se l’Akp non dovesse disporre della maggioranza (276 deputati), teoricamente gli islamisti dovrebbero cercare una forza con cui formare una coalizione di governo, che però di fatto non esiste, perché nessuna delle formazioni politiche che entrerà in parlamento appare disponibile a fare da stampella ad Erdogan e alle sue smanie di grandezza. Per ora i sondaggi danno l’Akp intorno al 40%, con una netta perdita di voti rispetto alle scorse elezioni.
E così la campagna elettorale ha assunto toni durissimi, è stata costellata di aggressioni e attentati, e ha visto l’impegno diretto del presidente Erdogan oltre che del premier Davutoglu, in barba alla Costituzione che pure prescrive che il capo dello stato di astenga dal sostenere pubblicamente alcuna formazione politica. I partiti di opposizione hanno chiesto più volte all’Alto consiglio elettorale (Ysk) di intervenire per bloccare l’attivismo politico del presidente, ma l’organo istituzionale si è difeso affermando di non avere l’autorità per stoppare Erdogan.
Di fronte ad una campagna elettorale martellante e scorretta del partito di governo, supportata da numerosi media pro-governativi (inclusa la rete televisiva statale) e le cui spese – lievitate da 330mila euro a gennaio a più di 4 milioni di euro ad aprile – coperte oltretutto dalle casse dello Stato, i partiti dell’opposizione stanno cercando di puntare su temi sociali ed economici. I kemalisti del Chp hanno affidato la gestione della propria campagna elettorale alla Benenson Strategy Group, la società statunitense che è dietro la vittoria elettorale di Barack Obama. Gli ultimi sondaggi assegnano al Chp il 23-30% delle preferenze, mentre la percentuale del Mhp si attesterebbe attorno al 14-18%.
Secondo alcune inchieste, l’Akp starebbe perdendo consensi anche tra i musulmani osservanti, disturbati dal fatto che i dirigenti della formazione non abbiano permesso alla magistratura di fare chiarezza sulle accuse di corruzione rivolte al governo nel 2014 e alle quali Erdogan ha risposto con purghe di massa: migliaia di poliziotti, magistrati, procuratori e giornalisti sono stati espulsi dal loro posto di lavoro o destinati ad altra funzione, e in alcuni casi anche arrestati. Per non parlare della faraonica residenza presidenziale costruita per Erdogan, abusiva, costata 500 milioni di dollari e definita dal presidente “una necessità per il Paese”: una spesa che in un contesto di aumento della diseguaglianza economica e con il tasso di disoccupazione più alto degli ultimi 5 anni non ha segnato certo un punto a favore del capo dello Stato.
Ma è soprattutto tra gli elettori curdi che l’Akp starebbe registrando la maggiore emorragia di intenzioni di voto. I discorsi di Erdogan sempre meno concilianti nei confronti di un accordo di pace con la guerriglia curda – il presidente è arrivato ad affermare recentemente che “la questione curda non esiste” – il mancato perseguimento da parte dello Stato dei responsabili del massacro di Roboski/Uludere (dove nel 2011 ben 34 curdi sono stati uccisi in un bombardamento delle forze armate), il sostegno accordato da Ankara ai jihadisti in Siria contro i combattenti curdi sembrano aver ridotto l’appeal dell’Akp sull’elettorato curdo.
Non a caso negli ultimi giorni dalle regioni orientali del paese arrivano notizie allarmanti dall’Hdp, che denuncia la cancellazione dagli elenchi elettorali di centinaia di elettori curdi la cui residenza viene spostata d’ufficio dalle autorità di centinaia di chilometri, probabilmente nel tentativo di impedire a potenziali elettori di sinistra di poter esprimere il proprio voto.
A questo punto decisivo sarà il sostegno dell’elettorato progressista turco, concentrato nelle grandi città – Ankara, Istanbul, Izmir – che potrebbe scegliere di premiare una formazione politica che per la prima volta ha assunto un carattere politico generale. L’Hdp ha infatti un programma all’insegna della difesa dell’ambiente dalla speculazione e dalle grandi opere implementate dalla cupola affaristica che sostiene Erdogan, sulla difesa e sull’incremento dei diritti delle donne e di tutte le minoranze e su quella dei diritti dei lavoratori, oltre naturalmente al perseguimento di una giusta pace tra lo Stato Turco e la guerriglia del Pkk che riconosca i diritti nazionali della popolazione curda. Inoltre l’Hdp ha scelto di corteggiare i curdi osservanti che si sentono però traditi dall’Akp, candidando nelle proprie liste alcuni esponenti dei movimenti islamisti moderati. Il che potrebbe però indispettire quella parte di elettorato laico il cui principale motivo di attrito nei confronti del governo è la politica di islamizzazione delle istituzioni e dei costumi sociali intrapresa in modo sempre più radicale da Erdogan e dall’Akp.
Il governo risponde con spregiudicatezza al possibile exploit delle opposizioni. Quest’anno le celebrazioni della Caduta di Costantinopoli ad opera degli ottomani sono state organizzate in pompa magna e avvolte in un’aura di quasi sacralità. Il governo le ha anche posticipate dal 29 al 30 maggio nel tentativo di oscurare il comizio elettorale del popolare leader dell’Hdp, Selahattin Demirtas. Con una coreografia senza precedenti e il supporto attivo del governo statale, del Comune di Istanbul e dl suo Akp, oltre che dei media compiacenti, ha radunato circa due milioni di persone nella metropoli sul Bosforo per dare una dimostrazione di forza che smentisse le previsioni pessimistiche dei sondaggi rispetto allesito del voto del 7 giugno. Nella folla oceanica radunata a Yenikapi, c’erano persone provenienti da tutto il Medio Oriente, compresi molti profughi siriani, i cui spostamenti e la cui permanenza sono state pagate con fondi provenienti dalle casse pubbliche. 

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