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Bombardamenti ucraini sul Donbass, molti morti

Se nelle redazioni di alcuni quotidiani italiani, quando si riportano notizie di guerra e di scontri, la regola – non sappiamo quanto giusta: né politicamente, né giornalisticamente – è quella del “non ci sono né buoni né cattivi”, le testate nazionali di maggior grido affrontano invece la questione in modo più diretto: noi stiamo comunque con “i nostri”. Se <le forze armate ucraine sono state costrette a riportare nella zona i pezzi d’artiglieria prima ritirati>, ciò è per <far fronte all’offensiva lanciata dai separatisti filorussi>. Che Kiev non abbia mai allontanato le proprie artiglierie pesanti alla distanza fissata dagli accordi di Minsk del febbraio scorso, appare per i media una questione secondaria. Così come secondario pare essere il fatto che Donetsk non sia, come si scrive in Italia, <ormai da molti mesi baluardo dei ribelli>, bensì costituisca, insieme a Lugansk, uno dei due capoluoghi regionali ucraini la cui popolazione, tutta intera, da sedici mesi si oppone al golpe europeo-statunitense di Porošenko-Jatsenjuk-Turčinov e da quattordici resiste con le armi in pugno all’aggressione militare di Kiev contro la popolazione civile e, per questo, non abbia mai cessato di essere bersagliata dalle artiglierie governative.
Fatto sta che da alcuni giorni, con intensità crescente, sono ripresi i combattimenti nel Donbass e i civili, insieme e più dei militari, continuano a morire sotto i bombardamenti. L’importante, per alcuni giornali, è scrivere che se le vittime sono soldati governativi o mercenari dei battaglioni neonazisti, i proiettili sono inequivocabilmente “ribelli”; se le vittime sono civili, i proiettili sembrano avere origine soprannaturale: non si sa mai da chi siano stati sparati!
Ma anche gli osservatori dell’Osce confermano quanto denunciato dal Ministero della difesa della Repubblica Popolare di Donetsk: nelle scorse 24 ore le truppe ucraine hanno aperto per ben 58 volte un intenso fuoco di artiglierie pesanti, mortai e carri armati su alcuni quartieri Donetsk, su altri centri abitati più o meno popolosi della regione, complessi industriali e miniere. Solo nelle ultime 24 ore si registrerebbero 24 morti, prodotti per lo più dai tiri ucraini sui palazzi di Donetsk. Prima dell’improvvisa impennata di ieri, da inizio settimana i morti tra i miliziani e i civili della Repubblica erano stati comunque già più di 20 e il numero dei feriti superava la settantina. Fortunatamente, nella nottata sono stati riportati in superficie gli oltre 300 operai della miniera Skočinskij (vicina a Donetsk) che, alla vigilia, erano rimasti intrappolati nel pozzo a causa dei bombardamenti governativi. Colpire per lo più obiettivi civili sembra costituire, ormai da oltre un anno, la forma specificamente governativa per affermare le “preoccupazioni” di Kiev per “la propria popolazione”.
Sarà un caso, ma il nuovo intensificarsi dei bombardamenti è coinciso con l’inizio, lunedì scorso, delle ennesime manovre – la serie, iniziata da alcuni mesi, andrà avanti fino al prossimo autunno: con nomi diversi e località diverse, ma sempre nelle immediate vicinanze dei confini russi –  “Saber Strike” nei Paesi baltici e in Polonia. Vi prendono parte 6.000 militari di 13 Paesi membri della Nato o partner dell’Alleanza atlantica. Da parte sua, il Presidente della Commissione esteri della Duma russa, Aleksej Puškov, collega l’inasprimento della situazione nel Donbass – di cui si fa immancabilmente ricadere ogni responsabilità su Mosca – con l’approssimarsi della data in cui l’Unione Europea deciderà sulla conferma delle sanzioni contro Mosca fino al gennaio 2016. 
In ogni caso, il vice Ministro della difesa della DNR, Eduard Basurin, ha dichiarato che le milizie erano riuscite già ieri, <grazie alla abnegazione e, in alcuni casi, al proprio sacrificio>, a fermare l’offensiva seguita ai massicci bombardamenti con cui le truppe di Kiev, da Krasnogorovka, hanno colpito dapprima le posizioni della DNR e, dopo, il terreno occupato dagli stessi governativi attorno a Marjinka. Dopo di ciò, anche da Marjinka si è aperto il fuoco, ha detto Basurin <come per rispondere a quel primo bombardamento>, in realtà indirizzando i tiri su Donetsk; cosicché, la città si è trovata sotto il fuoco proveniente sia da Krasnogorovka, sia da Marjinka. Secondo Basurin, <non ci sono dubbi sulla provocazione pianificata per tempo da parte di Kiev>, tanto che, con la copertura di questo fuoco di artiglieria, due compagnie di carri e circa trecento soldati hanno attaccato da Novoselovka in direzione di Marjinka e Krasnogorovka, “giustificando” così, di fronte ai padrini euro-americani, <il dispiegamento delle artiglierie, vietato dagli accordi di Minsk, verso la periferia di Donetsk, in preparazione di un assalto alla città>.
Intanto, mentre a Donetsk si contano un centinaio di feriti, a Marjinka altri morti tra i civili vanno ad aggiungersi all’elenco di caduti – le ultime cifre ONU, oltremodo ottimistiche, parlano di 6.417 morti e circa 16.000 feriti – sotto le bombe che, colpendo edifici pubblici, ospedali, scuole, quartieri popolosi del Donbass, hanno una precisa funzione terroristica e una non equivoca posizione di lancio. Per tutta la giornata di mercoledì, cominciando dalla tarda serata di martedì, gli osservatori Osce hanno registrato un fitto susseguirsi di movimenti di carri armati, artiglierie pesanti e bombardamenti da parte governativa su Marjinka. Colpite maggiormente, insieme a Donetsk, Marjinka e Krasnogorovka, anche Širokino, Gorlovka, Spartak. Il Ministero della difesa della DNR dichiara comunque che quella attorno a Marjinka è una <battaglia localizzata>, che dovrebbe preparare il terreno a un’offensiva più seria da parte governativa e che, in ogni caso, <le milizie non hanno nessuna intenzione di lanciare un’offensiva in quella direzione>, dato che la città di Marjinka è comunque già territorio della DNR.
D’altronde Kiev, per le operazioni di guerra nel Donbass, sembra dover fare sempre più affidamento su truppe scelte (corazzate e di artiglieria, oltre ai battaglioni mercenari), visti i risultati fallimentari delle cinque successive mobilitazioni lanciate da inizio anno. Anche la più recente pare aver sortito esiti disastrosi: nella regione occidentale di Leopoli solo tre giovani, tra quanti hanno ricevuto la cartolina precetto, si sarebbero presentati al distretto militare. Vero è che il richiamo terminerà il prossimo 8 giugno, ma le autorità militari non prevedono di poter reclutare che un massimo di un terzo dei richiamati. Ancora una volta, come già in tutti mesi dallo scorso gennaio, si registrerà una fuga dal paese dei giovani che tentano di sottrarsi alla chiamata e che il consigliere presidenziale Jurij Birjukov aveva a suo tempo definito <bestie> e <botoli codardi>. Giovani che, secondo i dati UE, non sembrano essere i soli ad abbandonare in massa l’Ucraina. Oltre ai circa due milioni e mezzo che hanno già ottenuto asilo in Russia, nei Paesi UE, oltre che in Svizzera e Norvegia, i profughi ucraini costituiscono la stragrande maggioranza di coloro che arrivano dall’Europa orientale. L’Ucraina, affermano in sede Ue, insieme a Siria, Eritrea, Irak, Somalia e Nigeria, rientra nel gruppo di sei Paesi con peggiori indicatori di “benessere”; ma i Paesi europei non concedono volentieri agli ucraini lo status di rifugiato: se questo è accordato al 95% dei siriani o al 89% degli eritrei, per gli ucraini non supera il 22%.
Intanto, torna sotto i riflettori – ma non per i media nostrani – la questione del Boeing malese abbattuto nel luglio scorso nei cieli dell’Ucraina. Verrebbe da dire, che il silenzio occidentale appare come un’esplicita ammissione dell’assoluta mancanza di un sia pur minimo appiglio per continuare a incolpare dell’abbattimento le milizie del Donbass e, per converso, della stessa assoluta mancanza di pretesti per “assolvere” l’aviazione o le batterie di razzi terra-aria governative che, il giorno della tragedia, occupavano l’area attorno a Zaroščinskoe, da dove, secondo gli esperti della russa “Almaz-Antej” (il complesso produttore dei sistemi missilistici antiaerei), sarebbe partito il missile “Buk-M1” che colpì il velivolo civile malese con circa trecento passeggeri a bordo.
Lo scorso martedì, il rappresentante di “Almaz-Antej”, aveva tenuto a Mosca una conferenza stampa, mostrando a centinaia di giornalisti russi e stranieri, la ricostruzione del possibile impatto del razzo con la cabina di pilotaggio del Boeing, compatibile con le tracce rinvenute sui resti dell’aereo. Il Comitato d’inchiesta russo sta ora vagliando le prove fornite da “Almaz-Antej” e, al contempo, la TV russa ha mostrato frammenti dell’interrogatorio dell’ex militare ucraino – di cui ora viene fornita l’identità, nonostante le sue dichiarazioni siano state rese note mesi fa – Evghenij Agapov che quel 17 luglio 2014 era in servizio come meccanico alla base aerea in cui è stanziata la squadriglia A4465. Agapov, rifugiato poi in Russia, ha sempre affermato di aver visto decollare tre caccia SU-25 armati di razzi; due sarebbero stati abbattuti, mentre il terzo, pilotato da tale capitano Vološin, al suo rientro alla base era privo di armamento e il pilota, scendendo dal velivolo, avrebbe dichiarato <non era quello l’aereo>. Al momento, a Mosca, vengono vagliate ambedue le versioni: sia quella dell’abbattimento del Boeing con un missile terra-aria, sia quella del razzo lanciato dal caccia ucraino.
Ma non fa nessuna differenza per il Dipartimento di Stato USA che, per bocca del portavoce Marie Harf, continuano a ritenere responsabili dell’abbattimento i miliziani del Donbass. Per ora, non è dato udire o leggere qualcosa in merito dai media di casa nostra.

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