La notizia di relazioni ormai alla luce del sole tra Israele e Arabia Saudita è passata in sordina. È sfilata tra le maglie della fitta cronaca israelo-palestinese occupate nelle ultime ore dalla decisione di Orange, colosso francese della telefonia, di ritirare i suoi affari da Israele (pare) in reazione alla scelta del partner locale di garantire servizi e agevolazioni ai coloni nei Territori occupati e ai soldati impegnati nell’offensiva “Margine Protettivo” della scorsa estate contro Gaza. Il governo israeliano ha accusato la Orange di essersi piegata alle pressioni del movimento Bds per il boicottaggio di Israele fino a quando lo Stato ebraico terrà i palestinesi sotto occupazione e li priverà dei loro diritti. E ieri Stephane Richard, l’amministratore delegato della Orange, si è affrettato a proclamarsi «innamorato di Israele» e a smentire di aver aderito al Bds. In questo clima, nel giorno dell’anniversario della Guerra dei Sei Giorni del 1967 — e dell’occupazione di Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est e del Golan siriano — Israele e Arabia saudita hanno fatto sapere di avere relazioni consolidate e, più di tutto, un coordinamento anti-Iran.
Durante un incontro, due giorni fa, a Washington del Council of Foreign Relation è stato riferito apertamente che negli ultimi 17 mesi, rappresentanti dei due Paesi, formalmente ancora “nemici”, hanno avuto cinque meeting segreti per discutere di come contrastare l’Iran. Protagonisti dell’incontro a Washington e della rivelazione sono stati un generale saudita, Anwar Majed Eshki, e il direttore del ministero degli esteri israeliano Dore Gold, già ambasciatore presso le Nazioni Unite. I colloqui “segreti”, hanno detto, si sono svolti nella Repubblica Ceca, in India e anche in Italia. Un terzo partecipante all’incontro di Washington, l’ex generale israeliano Shimon Shapira, ha affermato compiaciuto che i due Paesi «hanno scoperto di avere gli stessi problemi, le stesse sfide e alcune risposte in comune», dallo Yemen alla Siria, fino all’Iraq. Da parte sua Eshki ha elencato un piano in sette punti per il Medio Oriente, fra i quali la creazione di un “Kurdistan indipendente” formato dai tre territori ora in Iraq, Turchia e Iran. Non si è parlato direttamente di Palestina.
Potrebbe apparire esagerato, eppure questa notizia, fatta emergere di proposito mentre sono in corso colloqui decisivi tra Tehran e i Paesi membri del Consiglio di Sicurezza Onu (più la Germania), volti ad arrivare entro il 30 giugno all’accordo internazionale sul programma nucleare iraniano, rappresenta una sorta di proclamazione della fine del conflitto arabo-israeliano, almeno per come lo abbiamo conosciuto dal 1948 in poi. È scattata la normalizzazione tra Israele e il cosiddetto “mondo arabo moderato”, così come l’Occidente definisce le monarchie sunnite del Golfo (e non solo) che hanno sempre avuto una posizione più sfumata, meno ferma, sull’occupazione dei Territori e la causa palestinese. Qualcuno commenterà che era evidente da lungo tempo. Ma la decisione di ammettere apertamente questa normalizzazione e di non tenerla più chiusa nelle sale riservate di qualche hotel e negli uffici dei rispettivi servizi segreti, è la conferma delle nuove alleanze che si sono formate nella regione in risposta al sì di Barack Obama al programma nucleare iraniano, contestato dai petromonarchi, e in conseguenza della guerra civile siriana che da quattro anni spacca il mondo arabo.
Sul tavolo resta, ma messa da parte, la questione palestinese e il premier israeliano Netanyahu a più riprese ha parlato di «una nuova comprensione» tra Israele e le monarchie sunnite del Golfo che, a suo avviso, possono trovare con il suo governo l’intesa giusta per risolvere la questione palestinese. Ma non sulla base della proposta fatta al vertice arabo di Beirut nel 2002 (formulata proprio dai sauditi) fondata su “terra per la pace”, ossia il ritiro di Israele alle linee del 4 giugno 1967 in cambio di relazioni normali con il mondo arabo. Sostituire ad un eventuale tavolo di trattativa l’Olp di Abu Mazen con l’amica Arabia saudita sarebbe un successo eccezionale per Netanyahu, poichè finirebbe per isolare ancora di più i palestinesi già consapevoli che la loro causa non è più in cima alle priorità dei “fratelli” arabi. A ciò si aggiunge il ruolo del Qatar, impegnato secondo le indiscrezioni a mediare tra Israele e Hamas e ad impedire che la grave condizione di Gaza possa sfociare in una nuova guerra. Più di tutto il Qatar, con promesse di ingenti finanziamenti, tiene il movimento islamico palestinese isolato e normalizzato all’interno della Striscia. Anche Doha non nasconde più i suoi rapporti con Tel Aviv e il rappresentante diplomatico del Qatar presso i palestinesi qualche giorno fa è entrato a Gaza passando per Israele e non più per l’Egitto.
* da Il Manifesto del 6 giugno