C’è un corto circuito assoluto fra la solidarietà di molti e il cinismo crescente attorno ai drammi del mondo. Il tormento di milioni che vagano e muoiono sfuggendo da morti sicure e il desiderio di sicurezza, di esistenza serena e pacifica degli abitanti di comunità, finora, protette. Costoro vedono i primi come assalitori, disinteressandosi degli altrui assalitori: i combattenti di tutte le guerre, quelle definite criminali e quelle benedette come sante o percepìte come necessarie. Tutto ciò affermano i politici che governano e i media che divulgano il pensiero corrente. Jihadisti dell’Isis uguale oscurantisti oppressori e assassini. Cosa peraltro vera. Ma soltanto loro? Se la dichiarazione partisse dai partigiani del Rojava che ostacolano gli uomini in nero, difendendo la propria esperienza di società alternativa, non farebbe una grinza. Ascoltarlo dai governanti occidentali che si disinteressano del problema o pensano di risolverlo bombardando dai cieli, leggerlo nei comunicati di certi emiri del Golfo finanziatori di Al-Baghdadi, sentirlo dagli Erdoğan di turno o dalle Intelligence che brigano per sostenere l’ennesimo incendio mediorientale, è perlomeno stonato.
La realtà è evidente, eppure si sorvola. Si guardano gli effetti, strabordanti, incessanti, ma si tralasciano le cause. Se per l’Europa vagano undici milioni di siriani è perché una guerra, inizialmente civile poi organizzata da partner d’ogni sponda, è in corso da oltre quattro anni. E’ perché il satrapo di casa, Assad, sta ancora al suo posto, e chi lo combatte più che di libertà e giustizia è assetato di potere. E tutti lo sono di sangue, dei nemici e di chi può solo essere vittima. Duecento, trecentomila sono già morti, gli altri fuggono. Anche far fuori il leader dittatore non serve a ricostruire una società migliore. I libici non ci sono riusciti, tornando all’antico tribalismo clanista cui s’aggiungono i semi avvelenati del jihadismo armato che s’insinua in ogni crepa di sistemi decotti come sono i residui del panarabismo. Cosa dovrebbero fare gli iracheni che hanno subìto le smanie conquistatrici di Saddam, i piani sterminatori dei liberatori a stelle e strisce (desertum fecerunt et pacem appellaverunt) e sono stipati in enclavi e aree di conquista? Oltre quattro milioni di loro fuggono. Ovviamente lo fa chi riesce a mettere via quel denaro con cui ci s’infila nel barcone del trafficante o sotto il camion che arriva a Patra e riparte verso ovest.
Storie conosciute, già narrate dieci anni or sono, che si sono ingigantite perché in Afghanistan le ‘missioni di pace’ combattono ancora, perché i governi, che votiamo – oppure no – lì mantengono presenze militari e appoggiano politici locali che lavorano per gli affari del capitale globale, non certo per il popolo che dicono di rappresentare. E’ come da noi, con la differenza che in quell’orizzonte deflagrano bombe. E quelle genti prima di morire, se possono, vanno via. I businessmen, bianchi e occidentali e i raìs locali, che quattro anni addietro festeggiavano la nascita del Sud Sudan non si ponevano il problema della destabilizzazione economica che ne scaturiva attorno al controllo delle riserve petrolifere. Dal conflitto alla conseguente dispersione oggi si contano due milioni e mezzo di profughi sudanesi. Per tacere di nigeriani, congolesi, maliani in fuga da Boko Haram e fondamentalismi vari ma anche dalla miseria che Onu, Fao, Ong mondiali né possono né vogliono sradicare. Perché è il colonialismo di ritorno, sono i grandi del mondo, gli aderenti a vecchi e nuovi G8 e la Cina e l’India che fanno da sé, a stabilire nuove iniquità.
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