Gli ultimi due giorni a Beirut della delegazione italiana, missione “Per non dimenticare il diritto al ritorno”, sono segnati dalle visite al campo di Chatila.
La giornata di venerdì 21, in realtà, si apre con due incontri importanti: Jaber Suleiman, della fondazione “Ritorneremo”, spiega nella sua accurata e illuminante relazione su “Diritto al ritorno tra realtà e speranza” i fondamenti giuridici del diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi, e insiste sul fatto che le trattative in essere con Israele disattendono totalmente il dettato della risoluzione ONU n. 194 e il diritto internazionale. Gli Israeliani, infatti, giocano al ribasso e pretendono di imporre una soluzione che preveda il minimo delle concessioni e che li veda arbitri unici delle decisioni attuative, negando, sostanzialmente, il diritto al ritorno.
Subito dopo, il sociologo Suheil al Natour, esperto di diritto internazionale ed esponente del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina, ricostruisce la storia dei rifugiati palestinesi nei paesi arabi e in Israele, per concentrarsi poi sui campi profughi in Libano e sulla disastrosa situazione attuale che non lascia ai palestinesi alcuno spazio di diritto nel paese. La sua conclusione è che il Libano sfrutta i rifugiati palestinesi per i propri scopi, senza appoggiare realmente né il loro diritto al ritorno né le loro richieste di ottenere diritti civili e sicurezza sociale in Libano.
Poi, visita a Chatila. Si va a pranzo nella sede dell’associazione Beit Atfal Assomoud con i familiari delle vittime del massacro di Sabra e Chatila. A trentatré anni dal massacro, la loro voglia di raccontare è immensa. Sono persone che nel massacro hanno perso genitori, fratelli, sorelle, mariti, figli, o che sono miracolosamente scampate. Nei loro occhi e nelle loro parole, più che il dolore, c’è l’indignazione per l’ingiustizia rimasta impunita e per il colpevole silenzio del mondo; è per questo che non smettono di ringraziarci per essere lì a testimoniare la solidarietà di un piccolo ma determinato pezzo d’Italia. Abu Jamal, il “papà di Jamal”, porta appuntata sul petto una spilletta con il ritratto di suo figlio, che a diciannove anni è stato inghiottito dall’inferno di Chatila senza che più nulla se ne sapesse; Abu Jamal sa bene che i falangisti libanesi fecero a pezzi i corpi delle vittime nel tentativo di occultare il massacro, ma da trentatré anni, insieme con sua moglie Umm Jamal
continua a cercare di sapere che cosa gli sia successo. Ci racconta che ha una figlia che vive a Jenin. Come mai sua figlia è rientrata in Palestina e lui, che è nato lì, non può rientrarvi? Semplice: sua figlia ha sposato un cittadino giordano, riuscendo così ad acquisire quei diritti (compresa la possibilità di spostamento) che a lui e agli altri rifugiati sono negati.
Anche il diritto alla salute è negato ai rifugiati: una signora ci racconta che, fino a quando lavorava, ha potuto permettersi il trattamento e le cure per il tumore al seno, ma da quattro anni, cioè da quando non lavora più, va avanti senza i necessari controlli. Il sistema sanitario è fortemente privatizzato, in Libano, e quindi in questo la situazione dei profughi non si differenzia da quella dei libanesi; ma è chiaro che, non essendoci nei campi possibilità di lavoro se non in forme modeste che consentono di disporre di risorse minime, lo svantaggio dei palestinesi nei confronti dei libanesi è grande. Infatti il 95% dei palestinesi non ha un’assicurazione medica e perciò non può permettersi medicine e cure.
E così, nel corso del pranzo, passato e presente si intrecciano nella conversazione, e tutti e due risultano ugualmente spaventosi. “Per me giorno e notte sono uguali qui”, dice Abu Jamal. “Vogliamo tornare in Palestina”.
Il giorno dopo, sabato 22, si torna a Chatila. Sul luogo della fossa comune la delegazione, insieme con i familiari delle vittime, deposita una corona. Ancora racconti di chi c’era e ha visto i corpi, il sangue, la strage; ancora scambio di emozioni. Si entra insieme nel campo, i segni del degrado sono dappertutto, le viuzze sono strette, buie, soffocanti, i pavimenti delle case spesso in terra battuta, i fili elettrici chiudono i pochi spiragli di luce tra i palazzi che continuano a crescere verso l’alto per fare posto ai nuovi diseredati che vengono dalla Siria. Il caldo afoso, la carenza di corrente elettrica (c’è soltanto per due ore al giorno), l’acqua contaminata, rendono la vita intollerabile. Difficile immaginare quali siano le condizioni del campo in inverno, con la pioggia che trasforma le viuzze in ruscelli sporchi, e il fango che invade le case. Si fa visita a famiglie palestinesi e palestinesi-siriane, si passa davanti al Gaza hospital, che una volta era il secondo ospedale per importanza in Libano, luogo di cura per i profughi palestinesi e per i libanesi poveri, e ora, semidistrutto e devastato, è stato occupato da profughi vecchi e nuovi, diventando a sua volta un brulicante campo profughi dentro il campo profughi di Chatila. Ci accompagna l’infaticabile Abu Jamal; è veramente difficile salutarlo, alla fine della visita.
E’ il giorno della partenza, infatti. I delegati partono a gruppetti, in orari diversi.
Al rientro a Roma, all’aeroporto di Fiumicino, Clara si accorge che i suoi pantaloni neri, che ha indossato dalla mattina, hanno incrostazioni giallastre, sul fondo. Si gira a guardarci. “E’ il fango di Chatila”, dice.
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