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Pax mongolica sino-russa versus Impero del Caos

Nel giugno scorso sono apparsi alcuni articoli sulla stampa britannica, accademici e giornalistici, che disegnano i rinnovati rapporti di cooperazione sino-russi come ripresa del concetto di pax mongolica (1206-1368 d.c.).

Le cerimonie di commemorazione della sconfitta delle potenze dell’Asse durante la seconda guerra mondiale del 9 maggio a Mosca e del 3 Settembre a Pechino di quest’anno possono essere considerate come l’emersione simbolica aperta di questo rinnovato blocco di potere mondiale.

Il boicottaggio di queste cerimonie da parte dei governi occidentali da un lato e del governo giapponese dall’altro (assente alla cerimonia del 3 settembre) delineano un’opposizione geopolitica che va al di là del significato simbolico della sconfitta del nazismo e del militarismo giapponese.

In aperta polemica con il giappone neomilitarista di Shinzo Abe, il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon ha assicurato la sua presenza alla parata di Pechino, così come è stato presente a quella del 9 maggio a Mosca.

La forte complementarietà dell’economia cinese con quella russa, unita al progetto di Nuova Via della Seta lanciato dai vertici del Pcc, delineano un quadro di stabilità e di sviluppo economico di lungo periodo dell’area dell’Asia Centrale che ha come progetto e fine ultimo il collegamento con i mercati dell’Unione Europea.

Questo blocco continentale può arricchirsi di nuovi alleati come l’India che, al di là della sua partecipazione formale al blocco dei Brics, è governata da una classe dirigente legata dall’influenza post-coloniale all’Occidente, che il più forte movimento armato del mondo, quello neomaoista dei Naxaliti, tenta di mettere in discussione, assieme ai rapporti castal-feudali che ancora oggi impediscono un pieno sviluppo della società indiana, impietoso se confrontato al gigante cinese simile per dimensioni demografiche.

A questo blocco di potere in formazione, che tuttavia già da ora presenta caratteristiche di crescente integrazione, si oppone quello che è stato più volte definito l’Impero del Caos statunitense/europeo.

Alla sistematica promozione dell’instabilità da parte degli Usa che ha come fine il mantenimento del monopolio del dollaro sul più lucroso e strategico mercato del mondo, quello petrolifero, si oppone quello di sviluppo economico pacifico promosso dalle due potenze.

In questo senso è corretto parlare di Pax, con il riferimento, mututato dal concetto di Pax romana, al contesto euroasiatico.

Le élites dei paesi interessati vengono messe di fronte all’alternativa di un caos sociale ed economico e di instabilità politica prodotta dall’intervento occidentale, tale che la loro adesione al nuovo blocco in formazione non è dettata da motivazioni ideologiche o frontiste (il blocco stesso non ha nel suo complesso un’ideologia comune se non quella dello sviluppo pacifico), ma da motivazioni inerenti allo stesso mantenimento dello status di élites nei paesi di provenienza.

Questa motivazione tuttavia è una delle più forti possibili, che unisce l’intera classe dirigente di quelle aree, in grado di mobilitare, trascinandola, l’intera società.

Appare quindi mano mano più attrattiva alle élites dei paesi geograficamente vicini, l’India in primis ma anche i paesi arabi, alla Turchia e all’Iran già fortemente legato a questo blocco, che l’Occidente tenta di recuperare con l’accordo sul nucleare, la fine delle sanzioni e la riattivazione delle vendite di petrolio.

Stesso discorso vale per la Turchia, che gli americani tentano di mantenere nella proprio campo con l’accordo su come proseguire la guerra ad Assad e nel confronto/apoggio all’Isis.

I viaggi dei funzionari egiziani a Mosca degli ultimi mesi sono una testimonianza evidente delle tentazioni dell’egitto di Al Sisi di trovare nuovi sbocchi diplomatici alternativi alla monoalleanza con l’Occidente e Israele, e la risposta occidentale a tutto questo, ovvero i laghi protezionistici degli accordi Transatlantico e Transpacifico, non rappresentano certo un’alternativa attrattiva, segnati come sono dalla stagnazione delle economie occidentali e dalla crisi.

Gli investimenti che in particolare i cinesi saranno in grado di produrre nei paesi interessati dal progetto della Nuova Via della Seta saranno in grado da un lato di creare una valvola di sfogo alla sovra-capacità produttiva dei giganti statali cinesi che in Patria hanno quasi esaurito le occasioni di costruzione infrastrutturali, e dall’altro di creare vie alternative al trasporto dei prodotti cui il recente raddoppio del canale di Suez non è in grado di costituire un’alternativa geopolitica.

Anche storicamente, lo sviluppo economico della Cina “propriamente detta”, ovvero quello della pianura alluvionale della Cina centrale e del ricco territorio a sud del Fiume Azzurro, Yang tze (o Chang Jiang, “lungo fiume”), avvenuto in epoca Song (970-1279 d.c.) e Ming (1368-1644 d.c.), ha costituito la base di un rinnovato controllo politico militare in epoca Qing (1644-1911 d.c.) sui territori dell’Asia centrale, soprattutto sotto l’imperatore Qianlong (1736-1795/9).

In cinquant’anni, dalla metà alla fine del ‘700, la popolazione cinese raddoppiò, dai meno di 150 milioni di abitanti a più di 300 milioni alle soglie del 1800.

Lo sviluppo dell’agricoltura, della manifattura e del commercio, assieme ai prodotti culturali e tecnico-scientifici della società cinese, ebbe un ulteriore forte sviluppo.

I parallelismi con la Cina attuale sono dunque piuttosto scontati e tuttavia non meno privi di significato, se si pensa che, ceteris paribus, esistono forti analogie tra il sistema di governo, il carattere misto pubblico/privato dell’economia del tempo, lo sviluppo commerciale e la sudditanza della classe commerciale (in sé e non per sé) di allora nei confronti della classe dirigente confuciana con il rapporto tra i settori imprenditoriali di oggi e la loro subordinazione al Pcc.

Ciò è rilevante per il fatto che, come occidentali, marxisti e non, siamo portati a pensare che il capitalismo nato in Occidente travolga tutto con sé e trasformi gli antichi modi di produzione “asiatica” a sua immagine e somiglianza, e spesso tendiamo a sottovalutare la resilienza sotto nuove forme di quegli assetti sociali e regimi o mix economici.

Lo sviluppo economico delle aree costiere prodotto dalle riforme avviate da Hua Guofeng e soprattutto da Deng Xiaoping dopo il 1978 hanno prodotto un quasi quarantennio di sviluppo il cui surplus viene oggi investito in un progetto geopolitico di sviluppo economico pacifico dell’area euroasiatica, e già questo basta per mettere in discussione il modello occidentale/imperialista fondato sull’instabilità funzionale alla rapina delle risorse.

Un’avvertenza sembra necessaria. In particolare in Italia il concetto di “Eurasia” ha visto un inaccettabile filtro da parte delle organizzazioni neofasciste cosiddette “rossobrune”, residui di quell’anima anti-americana (non certo antimperialista) che deriva direttamente dalla seconda guerra mondiale. In quest’accezione, infatti, la contrapposizione “soft” del blocco russo-cinese diventa una cornice entro cui ripresentare come “nuove” ideologie nazionaliste e reazionarie sepolte dalla Storia.

Il gigantesco fenomeno in atto e le potenti forze che vi sono dietro, con le loro differenze economiche, sociali e politico/ideologiche, ha invece grandi conseguenze geostrategiche oggettive, che bisogna comprendere bene per poterne tenere realisticamente conto.

Analizzare queste tendenze in atto per capire se vi sono spazi di emancipazione economica e politica rivoluzionari delle classi subalterne è un compito che i comunisti non possono evitare a causa del muro ideologico posto da questi gruppuscoli, che si rivela una piccola costruzione di carta non appena si inizi ad analizzare il gigantesco processo nel suo complesso.

D’altronde se Lenin ha dichiarato alla vigilia della sua morte: «l’esito della lotta, in ultima analisi, sarà determinato dal fatto che Russia, India, Cina,… costituiscono la maggioranza della popolazione mondiale e, in questo senso, la vittoria finale del socialismo è garantita in maniera assoluta e totale», la questione per i comunisti assume una particolare rilevanza, tale da oscurare per importanza sviluppi in altre aree.

Una cosa è certa: i mesi dal 9 maggio al 3 settembre 2015 sanciscono la nascita di un blocco in grado di sfidare l’Occidente (come riconoscono apertamente gli statunitensi) che non si vedeva dai tempi della caduta del muro di Berlino.

La pax americana fa acqua da tutte le parti, e quella mongolica dominata dalla Russia e dalla Cina segna punti a suo favore.

Il cedimento (tattico?) del governo golpista di Kiev a favore del riconoscimento dell’autonomia ai ribelli filorussi del Donbass ha scatenato una divisione nell’élite al potere, sintomo di uno scricchiolio preoccupante nell’ambito di un conflitto che ha oramai assunto implicazioni di livello mondiale e di confronto tra blocchi.

Non mancheremo di seguire, come ogni giorno avviene su Contropiano, gli sviluppi dei principali fatti e linee di tendenze.

Nel frattempo a Gengis Khan, sepolto in una località segreta, chissà che non fischino le orecchie a questo gran parlare di lui. Chissà se, in procinto di morire, nella campagna per la sconfitta del regno “sinobarbarico” degli Xi Xia(1038-1227 d.c.) nella Cina nordoccidentale, pensava che dopo 788 anni dalla sua morte si sarebbe fatto un così gran parlare della sua eredità.

 

Riferimenti monografici:

M. Sabattini, P. Santangelo, Storia della Cina, 1986 ristampa 1999 Laterza.

 

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