I fatti hanno la testa dura, andiamo ripetendo spesso. E costringono tanti a cambiare idea, visione, progetto politico. Nel panorama disastrato della sinistra radicale europea questo è certamente un bene, vista la miseria mostrata negli ultimi 25 anni.
Ma intorno a cosa si sta cambiando idea? Intorno al problema principale, discriminante, politico per definizione: quale rapporto tra movimenti sociali contro l’austerità e Unione Europea?
Ora ben quattro leader politici della sinistra europea, in alcuni casi ex ministri (o vice) delle finanze dei rispettivi paesi (Lafontaine, Varoufakis, Fassina, Melenchon) hanno firmato e diffuso, da Parigi, un documento-appello intitolato “Un piano B per l’Europa” in cui dichiarano di di “essere determinati a rompere con questa Europa”, con una visione che prevede anche una revisione totale del sistema della moneta unica e il ritorno alle monete nazionali. Vedremo tra poco quelli che secondo noi sono i limiti di questa impostazione, ma non si può negare che si tratti di un notevole passo in avanti rispetto al “riformismo europeista” ancora sbandierato dalla parte meno reattiva della cosiddetta sinistra radicale.
Nel dire questo, e nell’invitare alla discussione i nostri lettori e tutti gli attivisti sociali e politici di questo paese, consigliamo di concentrarsi sull’evoluzione dei processi storici, anziché sui nomi e cognomi dei singoli. Non perché le biografie o la formazione individuale non abbiano la loro importanza, ma per la forza irresistibile dei processi storici, che producono i propri interpreti anziché esserne determinati. In fondo, è l’essere sociale (complessivamente) a produrre la coscienza, non viceversa…
La scelta tra riformismo subordinato e rottura, insomma, è una necessità sociale che si va imponendo in tutta Europa e produce le proprie forme di pensiero, nuove aggregazioni politiche anche temporanee e/o sperimentali. La maturazione di una posizione forte, capace di reggere e orientare il livello di conflitto che va maturando, non è del resto compito che possa essere assunto da menti solitarie o da piccoli gruppi autoreferenziali. Ma è un processo che è finalmente partito e che richiede confronto serio, pazienza, determinazione e soprattutto attenzione all’evoluzione della realtà globale.
Premesso questo, vediamo sinteticamente i punti di contatto e le differenze tra quel che ci sembra necessario e l’”appello di Parigi”.
Accogliamo come positiva molta della parte analitica, definizioni comprese, del testo che qui di seguito riproduciamo. A cominciare dal considerare “l’accordo del 13 luglio” tra Troika e Tsipras come “un colpo di stato” e dalla volontà di “trarre una lezione” da quanto accaduto.
Sulla parte propositiva, in testa a tutto poniamo, naturalmente, la determinazione a “rompere” con l’Unione Europea come “condizione primaria per ricostruire la cooperazione tra i nostri popoli e i nostri paesi su nuove basi”.
Inutile dire che che il cosiddetto piano A – “lavoreremo nei nostri rispettivi paesi, e insieme in Europa, per una totale rinegoziazione dei trattati europei” – ci appare come un’ultima concessione alla visione “riformista”, forse anche per limitare al massimo le inevitabili spaccature nella “sinistra europea” (Gue-Ngl) presente nel Parlamento europeo. Divisione peraltro immediatamente verificatasi proprio a Parigi, con uno dei padroni di casa – Pierre Laurent, segretario del Pcf – schierato con Tsipras e quindi con il “riformismo senza efficacia”, e Jean Luc Melenchon, tra i fondatori del Front de gauche insieme al primo.
Gli stessi firmatari sono però decisamente consapevoli che quel primo “piano” non ha alcuna possibilità di attuazione (qualsiasi “riforma dei trattati” richiede l’unanimità tra il 28 paesi della Ue) e si concentrano dunque sul “piano B”. Con apprezzabile serietà, ammettono che questo richiederà un lungo lavoro, e dunque presentano soltanto una prima lista di idee appena abbozzate: “introduzione di sistemi di pagamento paralleli, valute parallele, digitalizzazione delle transazioni, sistemi di scambio complementari community based, fino all’uscita dall’euro e la sua trasformazione da moneta unica in moneta comune”. Qualcosa che sembra quasi un “ritorno allo Sme”, accompagnato da altre possibilità, ossia a un sistema di cambi fluttuanti secondo bande di oscillazione concertate. Qualcosa che è esistito per preparare la convergenza dei sistemi monetari nazionali verso la moneta unica; qualcosa, dunque, difficile da immaginare come futuro migliore.
Ma ci sembra anche inutile addentrarsi in una disamina tecnica di idee che necessariamente si trasformeranno nel corso del tentativo di renderle progetti, proposte, misure praticabili.
Viviamo in tempi eccezionali, è vero. Sono tempi veloci, entrano in sommovimento forze gigantesche, per dimensioni di capitale e di popolazioni coinvolte. Quel che oggi sembra una buona “pensata” tra qualche mese verrà ricordata con compassione dagli stessi che l’avranno avuta, di fronte al cambiamento imprevisto.
Proprio per questo – nell’avanzare l’idea dell’Alba Euromediterranea – abbiamo inteso offrire un orizzonte perseguibile “rompendo” l’Unione Europea. Un orizzonte, non un “piano tecnico-finanziario” dettagliato. Perché il cammino reale è certamente complesso, altamente conflittuale, passa per la rottura non solo della macchina chiamata Unione Europea ma anche – necessariamente, come si è visto nei giorni più duri della “vertenza greca” – del sistema di alleanze incardinato nella Nato. Chiunque si mettesse, qui e ora, a disegnare i dettagli di questo orizzonte, si comporterebbe come un deficiente che scrive ricette per le osterie del futuro. Un ruolo che qualsiasi comunista rifiuta in radice.
Fino al giorno prima delle elezioni di gennaio, in Grecia, la domanda sul rapporto da tenete con l’Unione Europea non esisteva neanche. Tutte le principali formazioni che agivano da rappresentanza politica di questi movimenti erano compattamente “europeisti” e indisponibili persino a sentir parlare di “rottura dell’Ue” come passaggio indispensabile per recuperare la possibilità di decidere su politica economica, fiscale, investimenti finalizzati a ridurre le diseguaglianze, migliorare le condizioni di vita di giovani, lavoratori, pensionati, ecc. Noi, che abbiamo avanzato la proposta della “rottura” per primi, già da qualche anno, lo sappiamo piuttosto bene.
Sei mesi di disperati tentativi del governo Syriza di ottenere un “cambiamento” nelle politiche della Troika hanno dimostrato senza possibilità di appello che l’Unione Europea è una gabbia irriformabile dal basso, ovvero dalla pressione sociale e dalle istanze dei movimenti popolari, neanche quando arrivano a conquistare un governo nazionale. Se cambiamenti ci devono essere – com’è persino ovvio in una costruzione comunitaria in progress – possono essere decisi solo dall’alto, da “istituzioni” sottratte alla legittimazione e alla verifica democratica, secondo il ben noto metodo “funzionalista” usato da alcuni decenni: sfruttare le crisi per imporre una governance più forte. Lo stiamo vedendo anche in questi giorni, sull’onda dell’emergenza profughi, con la Germania come sempre capofila della linea da assumere (stavolta in forma fintamente “solidaristica”).
Sei mesi in cui un movimento politico nato e supportato da cinque anni di mobilitazione sociale durissima, ma di un paese piccolo ed economicamente debole, si è battuto con notevole forza e intelligenza per infine lacerarsi, tra resa incondizionata alla logica dei memorandum e presa d’atto dell’irriformabilità della Ue.
La Storia ci mette così davanti a una scelta costituente, perché l’atteggiamento nei confronti dell’Unione Europea è diventato la discriminante fondamentale tra chi accetta il sistema dominante con tutte le sue conseguenze e chi si batte per la trasformazione. Ed è una scelta politica operativa, che riguarda ogni attivista sociale o sindacalista conflittuale, ogni centro sociale o collettivo politico; non è una questione solo teorica o ancor peggio ideologica. Al di là delle chiacchiere e dei sottili distinguo, è una scelta del tutto simile a quella che un secolo esatto fa dovette compiere il movimento socialista internazionale davanti alla votazione dei “crediti di guerra” nei rispettivi parlamenti nazionali. Chi votava “sì” accettava di subordinarsi al proprio imperialismo nazionale, chi votava “no” riconosceva nel proprio imperialismo il nemico da combattere e nel proletariato di qualsiasi paese il proprio compagno di lotta. Fu la scelta tra riformismo complice e comunismo, e segnò l’inizio del momento più alto del movimento operaio mondiale.
Le differenze, a un secolo di distanza sono notevoli e questo confonde molte menti “di sinistra”. L’imperialismo attuale, il “nostro” imperialismo, è infatti sovranazionale e multinazionale. Lo Stato che lo incarna, insomma, non è un singolo Stato (la Germania e/o la Francia), ma l’insieme. Il “nostro” imperialismo si chiama Unione Europea.
L’unità conflittuale dei lavoratori europei è tutta da ricostruire, non è già data e operante. Altrimenti ci sarebbe stata una risposta sovranazionale, anche minima, allo strangolamento del governo e del popolo greco. Quanti ancora oggi parlano di “riformare l’Ue”, immaginando che ogni “rottura” sia necessariamente un “ritorno al nazionalismo”, semplicemente non sanno in quale mondo stanno vivendo. Nessun paese europeo – neanche la Germania – può più pensare di tornare indietro, allo Stato-nazione di 70 anni fa. Chi pure dice di volerlo, come alcuni movimenti nazionalisti e xenofobi, non riesce ad ottenere una forte credibilità (caso francese a parte) e ricorre al terrorismo sugli immigrati per allargare un po’ l’area di consenso.
Qualsiasi rottura della Ue, dunque, deve essere immaginata fin da subito come prospettiva internazionale, scelta comune di diversi paesi, simili o compatibili o complementari quanto a struttura produttiva, equilibri sociali, sviluppo economico. Persino ai piani alti della finanza europea, là dove la “Grexit temporanea” è stata immaginata e usata come arma terroristica, ogni “piano B” assume le fattezze dell’euro del Nord, non certo del ritorno al marco o al fiorino.
Ma la cosa più importante, al momento, è allargare al massimo la consapevolezza che la posizione sull’Unione Europea è dirimente: o ci si batte per la sua rottura, o si resta sotto la sua frusta.
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Un piano B per l’Europa
Il 13 luglio scorso, il governo democraticamente eletto di Alexis Tsipras è stato messo in ginocchio dall’Unione Europea. “L’accordo” del 13 luglio è stato in realtà un coup d’état, messo in atto attraverso la chiusura delle banche greche indotta dalla Banca centrale europea, con la minaccia che non sarebbero state riaperte finché il governo non avesse accettato una nuova versione di quel fallimentare programma. Il motivo? L’Europa ufficiale non poteva tollerare che un popolo prostrato dalle sue politiche di austerità auto-distruttiva osasse eleggere un governo determinato a dire “No!”.
Ora, con più austerità, più svendite di beni pubblici, con politiche economiche sempre più irrazionali e politiche sociali improntate ad una sfacciata misantropia di massa, il nuovo Memorandum può servire solo a peggiorare la Grande Depressione in Grecia e a consentire che la ricchezza della Grecia sia saccheggiata a vantaggio di interessi privati interni ed esterni.
Da questo golpe finanziario dobbiamo trarre una lezione. L’euro è diventato uno strumento di dominio economico e politico da parte di un’oligarchia europea che si fa schermo del governo tedesco, ben contenta di lasciare alla cancelliera Merkel il lavoro sporco che gli altri governi non sono capaci di compiere. Questa Europa genera soltanto violenza nei paesi e tra di essi: disoccupazione di massa, brutale dumping sociale e insulti contro la periferia europea, attribuiti alla leadership tedesca ma in realtà ripetuti a pappagallo da tutte le élite europee, incluse quelle della stessa periferia. In questo modo, l’Unione europea è divenuta portatrice di un ethos di estrema destra e mezzo per rendere impossibile in Europa il controllo democratico sulla produzione e la distribuzione.
Che l’euro e l’UE difendano gli europei dalla crisi è oggi un’affermazione pericolosamente falsa. È un’illusione credere che gli interessi dell’Europa possano essere protetti entro la gabbia di ferro delle “regole” di governance dell’eurozona ed entro i Trattati vigenti. Il tentativo del presidente Hollande e del primo ministro Renzi di comportarsi come studenti modello, o piuttosto prigionieri modello, è una forma di resa che non porterà nemmeno alla clemenza. Il presidenza della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, lo ha detto chiaramente: “non può esserci scelta democratica che vada contro i trattati europei”. È la versione neoliberista della dottrina della sovranità limitata inventata da Breznev nel 1968: allora, i sovietici repressero la primavera di Praga con i carri armati; questa estate, l’UE ha represso la primavera di Atene con le sue banche.
Siamo determinati a rompere con questa “Europa”. È la condizione primaria per ricostruire la cooperazione tra i nostri popoli e i nostri paesi su nuove basi. Come possiamo mettere in atto politiche di redistribuzione della ricchezza, di creazione di opportunità di lavoro dignitoso, specialmente per i giovani, di transizione ecologica, di ricostruzione della partecipazione democratica entro i vincoli di questa UE? Dobbiamo sfuggire alla vacuità e disumanità dei trattati europei vigenti e rimodellarli in modo da levarci di dosso la camicia di forza del neoliberismo, abolire il Fiscal compact e opporci al trattato commerciale con gli Stati Uniti, il TTIP.
Viviamo tempi eccezionali. Stiamo affrontando un’emergenza. Gli stati membri hanno bisogno di uno spazio politico che consenta alle loro democrazie di respirare e avanzare politiche a livello nazionale, liberate dal timore di giri di vite da parte di un Eurogruppo autoritario e dominato dai paesi più forti e dai grandi poteri economici, o da parte di una BCE utilizzata come un rullo compressore che minaccia di schiacciare i paesi che non “cooperano”, come è accaduto con Cipro e con la Grecia.
Questo è il nostro piano A: lavoreremo nei nostri rispettivi paesi, e insieme in Europa, per una totale rinegoziazione dei trattati europei. Ci impegniamo a sostenere ovunque le lotte dei cittadini europei, con una campagna di disobbedienza civile contro le scelte europee arbitrarie e le “regole” irrazionali, finché tale rinegoziazione non sia ottenuta.
Il nostro primo obiettivo sarà porre fine all’irresponsabilità dell’Eurogruppo. Il secondo sarà rimuovere la finzione di una BCE “apolitica” e “indipendente”, quando in realtà essa è profondamente politica (nella forma più deleteria) e totalmente dipendente dagli interessi delle banche e dei loro rappresentanti politici, pronta come è a reprimere la democrazia con la semplice pressione di un bottone.
Anche i governi che rappresentano gli interessi dell’oligarchia europea, e che si nascondono dietro a Berlino e Francoforte, hanno un loro piano A: non cedere alla domanda di democrazia dei popoli europei e agire in modo brutale per piegare la loro resistenza. Lo abbiamo visto in Grecia lo scorso luglio. Come sono riusciti a strangolare il governo greco, democraticamente eletto? Dotandosi di un piano B: espellere la Grecia dall’eurozona nelle peggiori condizioni possibili, distruggendo il suo sistema bancario e uccidendo la sua economia.
Di fronte a questo ricatto, anche noi abbiamo bisogno di un nostro piano B, da opporre al piano B delle forze più reazionarie e anti-democratiche. Per rinforzare la nostra posizione negoziale di fronte al perseguimento di politiche che sacrificano gli interessi della maggioranza per favorire un’esigua minoranza. Ma anche per riaffermare il semplice principio che l’Europa è per gli europei, e le valute sono strumenti per promuovere la prosperità diffusa, non strumenti di tortura o armi per uccidere la democrazia. Se l’euro non può essere democratizzato, se insisteranno nel volerlo usare per strangolare i popoli, ci leveremo e, guardandoli negli occhi, diremo loro: “fatevi avanti, le vostre minacce non ci spaventano”. Troveremo un modo per assicurare che gli europei abbiano un sistema monetario che operi a loro vantaggio, non contro di loro.
Il nostro piano A per un’Europa democratica, supportato da un piano B che mostri ai poteri costituiti che non possono indurci alla sottomissione spaventandoci, è inclusivo e fa appello alla maggioranza degli europei. Ciò richiede un elevato livello di preparazione. Gli aspetti tecnici saranno definiti nel confronto reciproco. Molte idee sono già sul tavolo: l’introduzione di sistemi di pagamento paralleli, valute parallele, digitalizzazione delle transazioni, sistemi di scambio complementari community based, fino all’uscita dall’euro e la sua trasformazione da moneta unica in moneta comune.
Nessun paese europeo può operare per la propria liberazione in modo isolato. La nostra visione è internazionalista. Anticipando ciò che potrebbe accadere in Spagna, Irlanda – forse, a seconda di come evolverà la situazione, nuovamente in Grecia – e in Francia nel 2017, abbiamo bisogno di lavorare insieme concretamente al piano B, tenendo conto delle diverse caratteristiche di ciascun paese.
Proponiamo pertanto la convocazione di una conferenza internazionale sul piano B per l’Europa, aperta a chiunque sia disponibile, cittadini, organizzazioni ed intellettuali. La conferenza può aver luogo in tempi ravvicinati, già a Novembre 2015. Inizieremo il percorso sabato 12 settembre, durante la Fête de l’Humanité a Parigi. Unitevi a noi!
Stefano Fassina, parlamentare, ex vice-ministro dell’economa e finanze (Italia)
Oskar Lafontaine, ex ministro delle finanze, fondatore del partito Die Linke (Germania)
Jean-Luc Mélenchon, parlamentare europeo, co-fondatore del Parti de Gauche (Francia)
Yanis Varoufakis, parlamentare, ex ministro delle finanze (Grecia)
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