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Per impressionare la Nato, Kiev manda i nazisti a bloccare la Crimea

Nonostante isolati colpi di armi leggere continuino a echeggiare quotidianamente nel Donbass, da qualche settimana le armi ucraine sembrano puntate per lo più sul fronte interno. Se per ora le lotte al vertice mantengono le forme della “dialettica politica” – per quanto tale definizione possa adattarsi alle “iene ridens” dedite alla spartizione del bottino – non è così per le rese dei conti a livello squadristico, con l’eliminazione di capimanipolo di secondo rango che hanno ormai esaurito la funzione assegnatagli nelle vicende di Euromajdan e postgolpe.
Così, per mantenere al giusto livello di esaltazione i “bravi” di quegli stessi battaglioni, si dirige la loro foga su altri obiettivi; se nel Donbass hanno dato prova di sé derubando, terrorizzando e aggredendo la popolazione civile, si è deciso ora di utilizzare la loro esperienza contro altri civili. Rispondendo al richiamo di due deputati della Rada e leader del movimento nazionalista “Majlis dei Tatari di Crimea”, Refat Čubarov e Mustafa Džemilev, da domenica scorsa alcuni “volontari” di Pravyj sektor e dei tatari di Crimea stanno inscenando il blocco alimentare della penisola, disseminando di chiodi, copertoni e blocchi di cemento la strada che congiunge la regione ucraina di Kherson alla Crimea: ieri circa 800 autotreni erano fermi ai tre caselli doganali ucraini.
Il governatore yankee della regione di Odessa Mikhail Saakašvili si era scomodato – ma forse soltanto perché per una volta qualcuno gli ruba il primo piano – per dire che “simili azioni devono essere intraprese dalle istituzioni statali e non da singole formazioni”. Gli ha fatto immediatamente eco il presidente Porošenko che, impartito l’ordine delle nuove sanzioni contro la Russia (entrano in vigore oggi e riguardano 382 persone fisiche e 105 giuridiche), ha chiarito di aver sì mandato avanti gli ascari, ma che “le forze statali ucraine sono incaricate di mantenere l’ordine ed evitare provocazioni” e, in ogni caso, l’azione si inserisce nei piani più generali di Kiev per “il ristabilimento della sovranità statale ucraina sulla Crimea”. 
A parere del politologo Vladimir Kornilov, il cosiddetto “Majlis dei tatari di Crimea ha deciso di ricordare la propria esistenza, dato che nessuno, a partire proprio dai tatari che in Crimea ci vivono, non si ricordavano più della sua esistenza, dopo la fuga in Ucraina dei suoi predicatori. Inoltre Džemilev ha sicuramente concordato l’azione con i vertici di Kiev e con i diplomatici USA, con cui si è incontrato di recente”. E il blocco alimentare, a detta di Kornilov, peserà proprio sui tatari, che in Crimea si dedicano al commercio alimentare, nonché sugli agricoltori ucraini.
Contemporaneamente al blocco della Crimea, sul fronte occidentale ucraino, mentre la Rada decide la formazione di una brigata d’assalto da montagna, per la difesa, si dice, della Bucovina settentrionale dalle mire della Romania – di cui fa parte la Bucovina meridionale – un altro battaglione neonazista, l’Azov, sì è impegnato ieri nel blocco della frontiera ucraino-moldava, lungo  l’autostrada che congiunge Odessa a Tiraspol, capitale della Transdnestria. Ma i manifestanti hanno sbagliato obiettivo: la strada bloccata non era quella percorsa dai TIR! L’idea non è nuova: l’aveva già proposta più di una volta il pretendente premier (chi si ricorda più che è stato anche presidente della Georgia?) Mikhail Saakašvili, senza peraltro inventare nulla di nuovo, dato che ciclicamente il ritornello viene ripetuto da Moldavia e Ucraina. L’azione del battaglione Azov si è conclusa in giornata ma alcuni fattori la rendono potenzialmente più pericolosa del blocco della Crimea: sin dall’inizio della crisi nel Donbass, la Transdnestria ha cominciato ad avvertire difficoltà con gli approvvigionamenti dall’Ucraina; già nell’agosto 2014, Kiev aveva posto limitazioni al commercio con imprese di Tiraspol. Inoltre, se i prodotti alimentari ucraini rappresentano appena il 5% dell’approvvigionamento totale della Crimea, la Transdnestria riceve oltre il 90% dei prodotti proprio dall’est e in particolare dall’Ucraina. Ad ogni modo, secondo il direttore dell’Istituto ucraino di riforma sociale, Oleg Soskin, citato da “Vzgljad”, l’una e l’altra azione “sono concordate con gli americani. Kiev e i suoi sponsor USA vogliono l’escalation del conflitto: questo è l’obiettivo del blocco della Crimea e della Transdnestria”. Non a caso ieri, il vice capo della sezione di Kherson del Ministero degli interni ucraino, Ilja Kiva, ha spiattellato che il blocco della Crimea torna utile all’Ucraina, perché faciliterà “la prossima offensiva per riconquistare la penisola”.
Ma questi avvenimenti non toccano in alcun modo chi è abituato ad occuparsi di disegni planetari: la due giorni del segretario generale della Nato Jens Stoltenberg – nel Donbass si augurano che l’ennesima presenza a Kiev di un alto esponente Nato non porti correttivi nella politica Ucraina, come avvenuto in occasioni precedenti – iniziata ieri, guarda a ben altri orizzonti che non le terrene frontiere di uno stato che, in quanto tale, domani potrebbe anche non esserci più, esaurita la sua funzione di testa di ponte nella missione di “arginare l’aggressione russa”. Tant’è che lo stesso Stoltenberg, raffreddando gli entusiasmi di qualche falco ucraino, ha concordato con Porošenko che l’Ucraina non è pronta per diventare membro dell’Alleanza atlantica e la Nato non è ancora pronta ad accoglierla; anche se, ha detto il puškiniano capo dei sapienti di Caldea, l’indovino Porošenko, “noi dobbiamo fare di tutto per prepararci, per cambiare l’Ucraina e far sì che possa divenire membro dell’Unione Europea. Ma, per l’Ucraina, le porte della Nato sono aperte dal 2008”. L’incontro tra il segretario Nato e il presidente ucraino si è svolto ieri presso il poligono di Javorov, dove dalla primavera scorsa alcune centinaia di paracadutisti USA stanno addestrando la Guardia nazionale ucraina, vale a dire quella parte di ex “volontari” dei battaglioni neonazisti “istituzionalizzati” in una formazione militare statale. Stoltenberg ha confermato che, in ogni caso, Kiev potrà far domanda di ammissione alla Nato (di fatto da anni già stanziata in Ucraina) non appena avrà portato a compimento “le riforme e la modernizzazione delle proprie Forze armate. E la Nato lavora insieme all’Ucraina, accompagnandola in quelle riforme, affinché esse rispondano agli standard Nato. Dopo di che, una volta effettuate le riforme, l’Ucraina deciderà – buona questa! – se vuole o no presentare la domanda per diventare membro della Nato. Se essa presenterà la domanda – non in carta bollata, ci auguriamo, data la situazione finanziaria di Kiev – allora verrà valutata la sua richiesta”. Come dire: la Nato entra ed esce dall’Ucraina quando e come vuole; l’Ucraina… beh, vedremo se e quando ne avremo ancora bisogno. E intanto facciamo vedere di cosa siamo capaci alle frontiere russe settentrionali: lo facciamo in Estonia con oltre duemila uomini di Lettonia, Danimarca, Canada, Gran Bretagna e Germania, sotto la tradizionale direzione di reparti del contingente militare USA in Europa. Le Saber Strike-2015, le manovre annuali varate nel 2010, sono iniziate lo scorso 14 settembre, ma per l’appunto ieri, in coincidenza con l’arrivo di Jens Stoltenberg in Ucraina, sono entrate nella fase operativa, che si concluderà il 29 settembre.
Se, soprattutto nell’ultimo anno, manovre Nato sempre più vicine ai confini russi si ripetono, si susseguono, si intrecciano e si sovrappongono, in una mobilitazione avanzata permanente, quelle in corso ora in Estonia prevedono la presenza massiccia di mezzi corazzati USA, in vista dello stazionamento, che diverrà permanente nel 2016, di 250 carri armati di Washington nell’Europa orientale. A Mosca notano come non si fosse mai vista una tale quantità di mezzi ai confini russi. Significa qualcosa?

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