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Obama-Putin. Incontro alla pari sulla Siria

Alla fine si sono incontrati, perché i fatti sul campo – in un teatro strategico come il Medio Oriente – sono decisamente più convincenti della retorica.

Barack Obama ha dovuto incontrare Vladimir Putin e già questo basta a fare del presidente russo un attore legittimato a decidere, al pari e sopra del vanesio presidente francese, che ha scelto l’Assemblea dell’Onu come fondale di una quasi tragicomica esibizione muscolare, con l’inizio dei raid aerei contro una base dell’Isis in Siria.

 In Medio Oriente, del resto, gli Stati Uniti e gli alleati europei si trovano davanti al risultato della propria fallimentare azione imperiale. Hanno distrutto alcuni Stati, produttori di petrolio e non, con la motivazione “etica” della necessità di abbattere dei dittatori. Hanno armato milizie di cui non avevano e non potevano avere (nel migliore dei casi) il pieno controllo, favorendo di fatto il fondamentalismo sunnita che ora sta cancellando i confini fissati quasi un secolo fa e riaprendo uno scontro a tutto campo con l’”eresia” sciita. Che ora, dovunque sia al potere o possegga comunque posizioni militarmente forti, assume la Russia come interlocutore e sostegno esterno.

 Di fatto, l’imperialismo occidentale non ha più un vero alleato nella regione, se si considerano – come bisogna fare – Arabia Saudita, Qatar ed emirati più piccoli come il nucleo centrale di un nascente “polo islamico-sunnita” che ha nell’Isis un figlio forse degenere, forse emancipato, comunque attivissimo.

In una situazione del genere i bombardamenti possono fare anche molto male, ma non permettono di vincere una guerra e stabilire un nuovo equilibrio favorevole ai propri interessi. Ma è impossibile comunque, per l’Occidente, rinunciare a una presenza egemonica nell’area che custodisce i due terzi delle riserve di idrocarburi a disposizione dell’intero pianeta.

Gli imbarazzi e le esitazioni statunitensi sono figlie di questi dati assolutamente contraddittori e motivano a sufficienza la necessità di incontrare il leader russo, che con l’aperto sostegno militare ad Assad ha sparigliato tutte le carte.

La retorica non ha fatto molti passi indietro. Obama, nel discorso davanti all’assemblea dell’Onu, ha rimarcato con un certa nettezza i punti di contrasto con Putin, a partire dall’Ucraina; e ha tenuto ferma la posizione – praticamente un nonsense – secondo cui qualsiasi soluzione in Siria non può prevedere un Assad che resta al potere. “Ci sono delle potenze internazionali – ha detto – che agiscono in contraddizione con il diritto internazionali. C’è qualcuno che ci dice che dovremmo sostenere dei tiranni come Assad, perché l’alternativa è molto peggio”. Ma ha anche dovuto ammettere che ormai i problemi globali assumono dimensioni che sfuggono alle possibilità di controllo anche delle superpotenze: “Nessuna nazione può isolarsi dal flusso di migranti o dai pericoli del riscaldamento climatico”. Ma senza rinunciare formalmente al proprio ruolo “egemonico”: “Non possiamo stare ad osservare quando la sovranità di una nazione è violata. Questo è alla base delle sanzioni Usa imposte alla Russia. Ma non vogliamo ritornare alla guerra fredda. Non vogliamo isolare la Russia, vogliamo una Russia forte che collabori con noi per rafforzare il sistema internazionale. Non possiamo stare a guardare mentre la Russia viola la sovranità dell’Ucraina. Oggi è l’Ucraina domani potrebbe essere qualche altro Paese”.

Sullo stesso piano, Putin ha rinfacciato all’AMerica un comportamento disinvolto e controproducente: E’ un errore non cooperare con il governo siriano di Bashar Assad. Ed è irresponsabile manipolare gruppi estremisti: è pericoloso dare le armi ai ribelli e giocare con i terroristi. Per combattere l’Isis – ha detto – occorre una coalizione internazionale come quella che si creò contro Hitler durante la Seconda Guerra mondiale. L’Isis non è nato dal nulla. E’ stato finanziato e sostenuto”.

Ma nell’incontro privato tra i de leader pare che le cose siano andate in modo molto differente, tanto da far dire al Putin, all’uscita, che «Il colloquio con Obama è stato sorprendentemente franco, costruttivo. Possiamo lavorare insieme. Eventi come questi sono utili, informali e produttivi».

Le indiscrezioni si sono immediatamente fatte strada insieme alle illazioni. Qualcuno prefigura addirittura “raid congiunti” russo-americani. Dimenticando che il sovraffollamento aereo che si sta producendo sopra la Siria rischia già ora di produrre incidenti dalle conseguenze imprevedibili. Mosca ha avuto gioco facile nel definirli “illegali”, perché effettuati “senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e del governo legittimo” siriano. Al contrario della propria cooperazione militare, invece, concordata con Assad.

Anche la questione della permanenza futura di Assad al potere sembra per il momento destinata a passare in secondo piano, vista l’inesistenza – sul campo – di alternative credibili (come capacità di mantenere il controllo del territorio) o comunque accettabili (il rischio è che il controllo lo prenda alla fine l’Isis). Si può comprendere, dunque, come il problema sia stato glissato con ironia dallo stesso Putin: «Obama e Hollande non sono cittadini siriani. Non possono decidere sul futuro del Paese».

In conclusione, per quanto provvisoria, si può dire ora si comincia a ragionare concretamente su un affrontamento concreto della situazione in Siria. Ma senza che Usa e Unione Europea – men che meno la ridicola Francia di queste ore – possano pensare di decidere per proprio conto. Il mondo non è più unipolare, dopo un quarto di secolo.

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Qui di seguito, l’eccellente analisi di Alberto Negri, su IlSole24Ore di oggi:

L’anno zero in Medio Oriente

Medio Oriente anno zero. Nessuno dei leader mondiali che si incontrano all’Onu forse passeggerà mai più per una strada del Medio Oriente, o salirà in cima alla cittadella di Aleppo.

Nessuno attraverserà piazza Firdous a Baghdad, dove nel 2003 venne abbattuta la statua di Saddam, o alzerà gli occhi al cielo per osservare i grattacieli medioevali di Sanaa in Yemen. L’orizzonte da cui sono nate millenarie civiltà è un cumulo di rovine. E neanche il più ottimista dei rifugiati giunto in Europa dalla Siria può pensare di tornarci perché la distruzione materiale ed economica della guerra è stata accompagnata da quella morale, dalla scomparsa di ogni residuo di tolleranza e convivenza civile.

Per questo se mai ci sarà un giorno la ricostruzione della Siria, dell’Iraq, dello Yemen o della Libia, e anche del lontano Afghanistan, tutto ci apparirà soltanto una replica dell’originale, come avvertiva l’archeologo italiano Paolo Matthiae, lo scopritore di Ebla. Ma se si può rifare un capitello di Palmira, è impossibile replicare una società sradicata dalle fondamenta. Fondamenta assai fragili perché l’80% del Medio Oriente è l’eredità della disgregazione dell’Impero Ottomano e delle successive sistemazioni coloniali anglo-francesi, cui sono seguiti i tragici fallimenti degli Stati laici e autocratici.

Quel Medio Oriente non esiste più neppure sulla carta geografica. Mentre Putin e Obama ieri stavano discutendo a New York, un altro pezzo della regione più nevralgica del mondo, custode di riserve di petrolio e di gas, scompariva, inghiottita da una battaglia del Califfato, da un raid di Assad, da un bombardamento saudita o della coalizione internazionale. La guerra ha travolto Stati e frontiere ma anche l’Islam: l’Isis ha reso ancora più aspra la separazione tra sciiti e sunniti, tra laici e religiosi, tra una maggioranza musulmana e minoranze che si sono dissolte. I cristiani sono scomparsi dal cuore dell’Iraq per rifugiarsi in Kurdistan, così come gli yezidi o i mandei, di cui nessuno ha mai parlato ma che vivevano lungo il Tigri da migliaia di anni. Sono diventate laceranti anche le divisioni etniche, come quella che oppone i curdi a ad Ankara e rischia di diventare una questione insanabile per la Turchia, storico membro della Nato.

Le costruzioni post-coloniali sono pericolanti perché si è liquefatto l’unico collante che le teneva insieme, il nazionalismo, anche nelle sue forme più esasperate come quella di Saddam Hussein in Iraq o di Gheddafi in Libia. Caduti i raìs sono crollati gli Stati che rappresentavano e sono in crisi di legittimità anche le monarchie del Golfo che dopo avere esportato problemi finanziando l’Islam radicale ora vedono i guai tornare a casa propria.

È sintomatico che i soli a reclamare ancora una nazione (e un territorio), oltre ai separatisti curdi, siano i palestinesi che ieri hanno innalzato la loro bandiera all’Onu. Per Washington, che ha votato contro, è intervenuta l’ambasciatrice Samantha Power: «Alzare la bandiera palestinese non è un’alternativa ai negoziati e non porterà più vicini alla pace». Una dichiarazione surreale: nessuno parla più di negoziati. Gli israeliani hanno evitato commenti inutili. Dalle alture del Golan vedono ben altri stendardi sventolare all’orizzonte.

L’unica bandiera che garrisce al vento è quella nera del Califfato che di fatto ha abbattuto i confini coloniali. Forse non è un caso che il video di maggiore successo dell’Isis sia quello in cui un bulldozer disintegra in pieno deserto un cartello con la scritta Sykes-Picot, il nome dei due diplomatici di Gran Bretagna e Francia che nel 1916 disegnarono la spartizione del Levante arabo.

Negli ultimi decenni gli islamisti hanno cercato in ogni modo di creare uno Stato islamico governato dalla sharia: in Sudan, in Afghanistan, in Yemen, nel Sahel africano. L’idea era quella di impossessarsi di uno Stato preesistente e farlo proprio, mentre al-Qaeda e Osama bin Laden puntavano a spargere il terrore mirando al nemico lontano, Stati Uniti e Occidente. Ma l’11 settembre non ha avuto gli effetti sperati lasciando immutati gli equilibri geopolitici del Medio Oriente. Al-Qaeda seminava paura ma non cambiava il mondo.

Il Califfato nasce in Iraq proprio da questa intuizione. È inutile combattere il centro del potere, è molto più efficace prendersi le periferie concentrandosi sui territori dove il governo è più debole e più forte lo scontento. Così nasce lo Stato Islamico: un pezzo di Iraq cui aggiungere un pezzo di Siria facendo saltare le frontiere tracciate sulle ceneri dell’Impero Ottomano. L’Isis è nei fatti la dimostrazione che il mondo può cambiare: è con questo che ha calamitato i consensi locali dei sunniti e mobilitato l’afflusso dei foreign fighters. Si è parlato molto dei jihadisti occidentali, dei convertiti. Ma la realtà è che i combattenti stranieri di prima linea sono ceceni, uzbeki, jihadisti di tutte le nazionalità addestrati in Afghanistan, Yemen, Sudan, Maghreb e Sahel.

Quello dell’Isis è un esercito motivato e professionale. Altrimenti non avrebbe sbaragliato quello iracheno, messo spalle al muro Assad e dato filo da torcere a milizie sciite sperimentate come quelle dei libanesi Hezbollah e dei Pasdaran iraniani. Chi ha viaggiato con Hezbollah sa perfettamente che nel Qalamoun siriano hanno combattuto contro ceceni che adottavano le stesse tattiche di guerriglia usate a Grozny contro i russi.

Ecco perché la guerra al Califfato non si vince soltanto con i raid aerei. Questo lo sa certamente Putin e anche Obama che non vuole impegnare truppe nel Levante. Ma soprattutto entrambi sanno, come pure gli Stati della regione convolti – Turchia, Iran, Arabia Saudita – che il Medio Oriente è all’anno zero e la soluzione militare non basta a ricostruire un mondo che non c’è più.

 

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